martedì 21 luglio 2015

Biografia e note critiche

Carmelo Coppolino Billé

Castroreale è il paese che mi ha visto nascere, sito su un cocuzzolo di montagna, cintato da antichi muraglioni, dal cui con lo sguardo si domina il golfo di Milazzo e la ridente cittadina di Barcellona.
Nacqui nel 1946, anno in cui spirò la mia povera mamma; io prendevo il biglietto di questa comparsa vitale, mentre ella, alla distanza di un mese e tre giorni veniva falciata e cancellata dal mondo. Aveva lasciato in quel paese, oltre all’affetto di una mamma e sorella, uniti a quello dei suoi fratelli, anche noi teneri virgulti in balia del vento, mio fratello Totuccio (Salvatore), mia sorella Cettina ed io che non ho visto quel volto tanto caro, che solo l’ombra di una foto mi grida che è mia madre.Dopo la morte di mamma, le strade di noi figli sono state divise: io a vivere tra i bimbi abbandonati, quelli che sempre chiamano chi loro non risponde.
Nel brefotrofio rimasi tre anni, poi venne il mio turno: avevo i capelli biondi, l’espressione triste per il mancato affetto d’una madre, il viso tondo, gli occhi di color celeste-verde, insomma una scelta degna del compratore, come tanti cocomeri nelle mani del pubblico: così anch’io, come ogni bimbo, possedevo una nuova mamma.In quel Natale del ’49, nel ridente villaggio di Camaro, facevo il mio ingresso sulle braccia di una nuova Mamma.
Avevo il vestito luccicante, tanta gente ad attendermi.Non ho studiato, anche per la passione che ancora nutro: il ciclismo.Or mi ritrovo ancora, con il pensiero rivolto a quel tempo passato, non più con i capelli biondi, ma brizzolati, non con il volto infantile e smarrito, ma uomo. Nel ricordo i miei genitori adottivi che ho amato d’un amore di riconoscenza e filiale, che mi hanno condotto per mano verso i traguardi della vita. Nel 1969 mi sono sposato e sono nati :Giovanni, Antonio, Mariagrazia e Tiziana.
Mi sono risposato con Giuliana dal quale è nato Daviduccio. Dopo aver lavorato per quasi trent’anni alle Officine Galileo di Sicilia, vivo ora da pensionato nella frazione di S.Pietro poco distante dal centro urbano di Milazzo, vicino al mare e vicino ai monti in una cornice che tanti terreni ci invidiano.
Sono il nonno di ben sette nipotini:Chiara, Gabriele, Mattia, Giorgia, Sara, Manuel, Samuele.
Nonostante i momenti di sconforto mi accorgo di aver superato i sessant'anni e ciò mi dà coraggio e forza per continuare questa degli uomini scalata. Amo la solitudine e, con lei compagna, continua in me il corso di questa vita.....

Carmelo Coppolino Billè, è un poeta italiano. Nato a Castroreale il 3/2/1946, risiede da circa quarant'anni a Milazzo, nella popolosa e ridente frazione di S.Pietro, nel cuore della Piana. Dopo un'infanzia turbolenta, passata tra il brefotrofio, il collegio, e la conoscenza dei genitori adottivi, Carmelo cominciò il suo percorso personale.
Deciso a ritrovare le sue origini, operò un'introspezione fondamentale che lo portò ad enucleare quelli che saranno poi i temi cardine della sua poetica, che ritroviamo ancora oggi nelle liriche più recenti che sono state anche dedicate sempre al Progetto della Ricerca Calibrata...: Amore, passione, fede e misticismo. L'importanza dei rapporti umani ed il valore della figura del padre, nella società di oggi. L'importanza dei valori legati all'infanzia ed al mondo dei giovani. L'Io che si lega in maniera indissolubile al binomio cielo/terra, senza escludere i parallellismi onirici che tratteggiano ogni libera interpretazione...L'arte fatta "gioco" del quotidiano, che vede tutti come "attori" e "spettatori" di uno spettacolo "apparente" e velato dalle tinte del vero...
...Determinanti furono quindi gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, trascorsi a Messina, città che lasciò un solco profondo nel suo "vivere"... Da poco, ha deciso con la collaborazione della moglie Giuliana di racchiudere le liriche degli autori mamertini fondamentali, nell'antologia "L'Eco del tempo", distribuita, tra l'altro, a tutt'oggi, nelle Biblioteche Nazionali del Bel Paese...
Le sue opere, pubblicate in diverse antologie, sono fonte di ispirazione e di analisi per i giovani del cenacolo umanistico "La Nuova Ricerca Calibrata", le cui attività sono coordinate dallo stesso Carmelo assieme a Maria Elena Di Amico e Danilo Saddi...
...Fu proprio lui, nel lontano 1966, a conoscere presso la sala dell'Eur a Roma, i pilastri della poesia italiana dell'epoca: Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti. Nello stesso anno, ha rappresentato l'Italia ad Amburgo, in occasione della commemorazione del padre della letteratura italiana, Dante Alighieri. Per l'occasione, lesse la poesia "Fogli d'un libro", apprezzata dalla critica internazionale e tradotta in molte lingue.
Nel 1967, furono pubblicate quindici delle sue poesie su "Mondo Letterario" di Milano...
...Correva l'anno 1992, quando partecipa alla sedicesima edizione del premio letterario "Città di Venezia", con la lirica "Ridammi la tua mano", la cui critica, tra l'altro è a cura di Bianca Buono...
Nel 1997, nel 1998, e nel 2000, i suoi scritti appaiono su "Cronache Italiane"- casa editrice Salerno- con tanto di critiche a cura della poetessa Tina Piccolo...
Nel 2003 è vincitore del premio "Giordano Bruno" di Messina, con la lirica "Padri e figli". E' sempre lui il fondatore del concorso Nazionale di poesia "La poesia oggi", giunto alla seconda edizione..."

Danilo Saddi

A Carmelo Coppolino Billè


Fiero ti ho visto spesso lottare
come in un'arena andalusa
con il toro dalle banderillas insanguinato.
L'orecchio mozzato hai donato
ad una donna dal volto velato.
Ti ho visto spesso
in prima linea,
senza mai ammainare
la bandiera del coraggio.
Ali ti dà il vento
nel solco che il tuo vomerecon sudato puntiglio
ha sempre scavato
con il canto in gola.
Ti ho visto sempre
mosto in fermento
in una buona botte di rovere
in mezzo a una ciurma di amici
ebbri come te della vita.

Giuseppe Anania



AL BAMBINO DI IERI
(per Carmelo)


Cambiare quel che sei, sarebbe un crimine.
Perché il tempo è una mannaia,
se ti lasci trasportare dall’odio.
Ti hanno strappato i ricordi, come ali avvizzite,
che non hai mai vissuto,
inseguendo carezze mai date,
e il calore di una madre perduta.
Resta quel che sei, amico mio.
Le lacrime versate e i sorrisi
sparsi per il mondo sono
il tuo emblema.
Le sofferenze antiche
e le risposte vaghe, che diamo a quel
che è stato, ci aiutano
a volare.
Lo hai fatto e lo farai.Mettendo i piedi a terra,
o lasciandoti trasportare
dall’emozione.
Ricorderò sempre quel tuo
sorriso triste, e la sincerità
d’animo che accompagna ogni tuo gesto.
Siamo marionette nelle mani del tempo,
ci strattona e ci divora,
bruciando a volte il nostro restare ancora bambini.
Ma non tutto è perduto, quando dentro di noi,
a ogni refolo di vento,
la fiammella dei buoni sentimenti…..
resiste indomita.

Anna La Rosa




A Carmelo Coppolino Billè

Ora il pensiero positivo
come fiamma improvvisa
si fa strada nella mente...
dà vigore... illumina il buio.

Nel bagliore del nuovo giorno
credo di aver trovato
una "via" per l'accesso
alla Speranza...

Nel nostro vagare
ritorneremo alla "foce" della vita:
la "Madre" di un tempo...
-Saprà lei aiutare te,
lenire le nostre pene.

Non più parole
ma speranze concrete.
... E da spini aguzzi
sboccerà una rosa.

Elvira Alberti
con tantissimi auguri.




lunedì 20 luglio 2015

LA CULLA SENZA SUONI -© 2013 Edizioni Smasher 98051 Barcellona Pozzo di Gotto (ME) www.edizionismasher.it

orme d i inchiostro
88



Giuliana Perrone
La culla senza suoni
Il costo di una vita
Il racconto della vita di Carmelo Coppolino Billè


Edizioni Smasher

Immagine di copertina

Anna La Rosa

Il volume è stato curato dal

Prof. Giuseppe Anania




Giuliana Perrone, moglie di Carmelo Coppolino Billè, ha recuperato, rielaborato e messo in ordine gli scritti del marito, rendendoli una pubblicazione accessibile a tutti. La narrazione è in prima persona per dare maggiore pregnanza alla storia.





© 2013 Edizioni Smasher

per l’Associazione Smasher
Sede Legale Via Isonzo, 37/1 D int. 3
98051 Barcellona Pozzo di Gotto (ME)
www.edizionismasher.it

Direzione editoriale

Carmen Fasolo

Collana Narrativa “Orme di inchiostro”

diretta da Carmen Fasolo

La culla senza suoni

Giuliana Perrone

1a edizione febbraio 2013

ISBN 978-88-6300-087-8


I miei ringraziamenti vanno a:
Anna La Rosa
Roberta Tomaselli Arrigoni
Mariella Corso
per avermi aiutato a completare il libro.
Giuliana Perrone





Indice

Capitolo 1-La verità nascosta dal silenzio
Capitolo 2-La scoperta
Capitolo 3-Castroreale: la meta
Capitolo 4-Il protagonista: ero sempre io
Capitolo 5-Incontro con gli zii
Capitolo 6-L’incontro con Quasimodo, Montale e Ungaretti
Capitolo 7-Suona per me l’inno di Mameli ad Amburgo
Capitolo 8-La naia
Capitolo 9-L’ardore della giovinezza
Capitolo 10-La nascita di Giovanni, Antonio, Mariagrazia e Tiziana
Capitolo 11- I miei figli illuminano ogni mio passo
Capitolo 12-L’incontro con Giuliana
Capitolo 13-Marco e Davide
Capitolo 14-Un fulmine a ciel sereno

A mio padre che non c’è più 

Poesie:
Fogli d’un libro
Il mio paese
Ai miei compagni di collegio
Ricordo d’uno scolaro
Padri e figli
Nel cammino
A bedda vita
La bella vita
U travagghiu
Il lavoro
La preghiera
Un ricordo lontano


Lettera aperta 



Prefazione
di Giuseppe Anania

Il presente testo intitolato La culla senza suoni è suddiviso in quattordici capitoli, sigillato dalla lettera dell’amato figlio, Davide, diciottenne, e arricchito da nove significative poesie enucleate da diverse sillogi inedite di Carmelo Coppolino Billè.
Detto titolo referente preavvisa subito il lettore per la durezza impietosa dell’espressione. Si tratta, infatti, di un lettino per neonati, ovvero di un’infanzia muta, senza la presenza di care voci umane (mamma, papà e altri) o di suoni musicali. È la tipica situazione degli infanti abbandonati, accolti e allevati in particolari istituti chiamati brefotrofi.
Da simile condizione, tali infanti sono salvati solo da una fortuita e provvidenziale adozione. Proprio questa forte tematica Carmelo Coppolino Billè sottopone all’attenzione del lettore nella presente biografia.
Il lettore, senza dubbio, attraversando il testo in predicato, ha modo di “scoprire” Carmelo Coppolino Billè nella sua qualità di uomo, di genitore, di nonno, di cittadino, di operaio, di sindacalista, di amatore della cultura e in particolar modo della poesia.
Egli si confessa senza alcuna reticenza, perché ritiene di non aver nulla da nascondere e sente il bisogno propulsivo di gridare al mondo intero la propria solitudine, la propria disperazione, la propria angoscia, allorquando era in balia degli altri, ovvero alla mercé degli umori e dei sentimenti altrui.
Il Nostro non conosce il tanto desiderato volto della mamma, uccisa barbaramente dal marito; prova, quindi, l’esperienza negativa del brefotrofio, la liberatoria adozione e la permanenza presso la “Città del ragazzo” a Messina, gestita da don Antonino Trovato, detto “padre Nino”.
Mentre si trova con i genitori adottivi, frequenta prima la scuola elementare e poi l’istituto di avviamento “Juvara”.
Durante le febbrili ricerche sulla storia dei propri dati anagrafici, Carmelo apprende da padre Giacinta di avere “un fratello e una sorella e che anche loro erano stati toccati da questa tragedia che aveva segnato ogni loro passo. [...] Le nostre strade erano state divise. Io al brefotrofio per tre lunghi anni, poi adottato. Mio fratello Totuccio aveva poco più di sei anni [...] abitava ora da uno zio ora da un altro, poi a Genova da un terzo zio, o a Castroreale con altri zii [...]. Anche mia sorella Cettina, che all’epoca aveva tre anni, era stata adottata quasi subito da una famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto”. Questa incolpevole diaspora familiare grida al Cielo!
Dei genitori adottivi, Giovanni Billè e Grazia Raffa, il Nostro con immensa commozione e debita gratitudine dichiara che “sono stati il manto della misericordia in quegl’istanti confusi per la mia piccola età in cerca d’aiuto. Essi tramutarono quel pianto in un sorriso, per affrontare al galoppo la vita; questo ricordo fa ancora parte dei miei pensieri, essendo il risultato della vita di oggi.
Avevo raggiunto ciò che cercavo. Risalire alle mie origini mi aveva lasciato più confuso di prima e con l’amaro in bocca.
Adesso sapevo, ma alcune volte è meglio ignorare per la pace dell’anima”. Al lettore non può sfuggire che il Nostro, nonostante la provvidenziale adozione, rimane per sempre scosso dalla scioccante verità. Difatti, tale verità, quale eco importuna, percuote e rimbalza sulle pareti dell’io interiore, causando ovvia inquietudine.
Il Nostro è talmente desideroso di conoscere di persona i citati zii che racconta con grande gioia la propizia occasione offertagli da un amico che, quale tecnico di televisori e radio, si recava spesso a Castroreale dove aveva dei clienti. Si tratta chiaramente di parole degne di particolare attenzione per la loro pregnanza psicologica: “Un giorno, insieme ai miei genitori,combinammo un incontro con gli zii: era la prima volta che vedevo quei volti che mi parlavano della mia vera identità. Mi mostrarono e poi consegnarono una foto di mia madre che ancora conservo con amore. Nessuno parlò di mio padre, come fosse un tabù da tenere ben nascosto. In quell’attimo rividi come in un sogno la famiglia e il passato – stavolta non era un sogno ma la realtà inseguita per anni. Non parlammo di grossi argomenti, perché ogni parola ci trascinava alle lacrime e quelle dovevamo evitare, se possibile. Ma nel contempo gli occhi non mentivano, divenivano lucidi anche senza parlare.
In quella casa c’era ancora odore del passato [...]. Finito di pranzare, chiesi a mio zio Nino quale fosse la casa di mia madre e lui mi accompagnò”. In tale occasione si parla di Totuccio, il fratello, capitano di lungo corso. Si concorda altresì con padre Giacinta l’incontro con i genitori adottivi di sua sorella. Carmelo, visibilmente contento, vive per la prima volta la propria parentela in qualche modo ricomposta.
Sembra davvero un sogno! Sono parole, invero, pervase da un lato da una incontenibile esultanza per l’inopinato ritrovarsi di stretti parenti e dall’altro grondanti di assoluta mestizia correlata soprattutto alla visione della foto della madre, innocente bersaglio della furia uxoricida del marito, del tutto indegno di un seppure fugace ricordo. Il lettore può cogliere contrastanti sentimenti che sottolineano l’intenso subbuglio che travaglia l’animo del protagonista.
Inoltre, il Nostro cerca e trova lavoro presso diverse ditte tra cui “Le Officine Galileo di Sicilia”. Adempie agli obblighi di leva al C.A.R. di Orvieto, poi a Roma. Prima, durante e dopo il servizio militare fa alcune conoscenze femminili in diverse località. Il Nostro fervente amatore della poesia dice con orgoglio: “Una sera, arrivato a casa dal lavoro, mia madre m’informò che il prete aveva ricevuto dal direttore del collegio una telefonata, per dirmi che dovevo ritirare una lettera proveniente da Roma. Non sapevo di cosa si trattasse. Nell’intervallo di lavoro feci una capatina alla “Città del Ragazzo” dove mi accolse il capo istitutore, professor Anton Maria Vito Todaro [...]. Con un sorriso e un abbraccio mi comunicò che ero stato selezionato per la finale ad Amburgo con la poesia “Fogli d’un libro”. [...] lesse la lettera, la quale recitava testualmente che dovevo presentarmi in una sala dell’EUR a Roma, per contattare gli addetti ai lavori. Fu in quell’occasione che conobbi tre grandi della letteratura italiana e mondiale, i premi Nobel: Quasimodo, Montale e il mancato Nobel Ungaretti”. Ad Amburgo, insieme con un altro vincitore di Bolzano, Carmelo Coppolino Billè, ancora minorenne, rappresenta l’Italia e per loro viene suonato l’inno di Mameli.
Dopo queste e altre esperienze egli dice: “Tornato in Sicilia, notai che tutto era rimasto intatto proprio come l’avevo lasciato, ma tra i ricordi del passato c’era il presente a pungolarmi e a volte mi sentivo desolato per non poter realizzare i miei vecchi progetti.
Ricominciai a lavorare, anzi presi pure qualche lavoro per conto mio, inoltrandomi dentro il misterioso viaggio della vita che riserva sempre sorprese”. Tra le sorprese riservate dal destino al Nostro, c’è a Milazzo la conoscenza di Angela, con il relativo innamoramento. Dalla loro unione nascono Giovanni, Antonio, Mariagrazia e Tiziana, figli che gli illuminano ogni passo. Dopo incontra Giuliana, dalla quale nascono prima Marco, deceduto prematuramente, e poi Davide. Questi e altri episodi sono come onde del mare in bonaccia o in tempesta che sbattono e si infrangono fragorosamente contro la vita di Carmelo, la cui parola induce alla riflessione, spinge all’apertura, invoglia alla verità, incita alla vera amicizia. Egli, in virtù delle lacrime inghiottite, dei torti subìti, delle lotte vinte o perse, evidenzia un carattere pertinace non alieno, però, da scontati momenti di sconforto, di angoscia e di smarrimento. Uomo di profonda fede non è mai vendicativo ma solo pietoso nei riguardi del proprio simile.
Il presente memoriale è attraversato da positivi sentimenti e da aperture verso l’altro. Esso riesce a mettere sotto gli occhi del lettore molti casi e vicende del protagonista; rappresenta la realtà vissuta con immediatezza di vita e relative altezze e miserie, o relative illusioni e delusioni, dando così la frastagliata ampiezza di un uomo nel suo compiuto cammino terreno.
È un memoriale intimista che parla al cuore, spingendo il lettore a identificarsi con i sentimenti vissuti e descritti dal Nostro.
Alla fine, non si può non sottolineare che Carmelo conclude il presente memoriale annoverando con grande emozione “i nipoti, che sono il risultato di tutto l’insieme, formando essi e solo essi la luce che splende nell’infinito, augurando loro un radioso avvenire; così sono apparsi nel mondo: Chiara, Gabriele, Mattia, Sara, Giorgia, Manuel, Samuele e Nicolò, che mi hanno dato la carica per continuare questo mio poco spazio del rimanente vivere, cercando sempre di aiutare Davide che ne ha tanto bisogno, perché di padre ce n’è uno solo e di nonni ce ne possono essere quattro. Non infierisco, ma rimango solerte a guardare quest’angolo di mondo che a volte mi appare tanto cupo che non riesco a vedere nemmeno la mia ombra. Auguri, figli miei, sono vostro padre e ogni dolore vostro è mio...
Tutt’oggi continuo la mia lotta per sconfiggere il male e aggrapparmi a quella fede nei miracoli che mi è stata insegnata. Come sarà il mio domani?... Questo lo dovrà scrivere qualcun altro”. Si tratta di parole assolutamente ispirate che danno al lettore la giusta dimensione di Carmelo, forse già consapevole, tra l’altro, del proprio arrivo al capolinea della vita terrena.
Nell’ultima poesia, “Un ricordo lontano”, il figlio Carmelo, rivolgendosi alla madre non conosciuta, si esprime con tali accorati accenti: “Tu vorresti dirmi tante cose,/ quelle che ti rimasero/nel cuor che Dio ti pose,/non puoi più dirmele/e ne soffri tanto. È vero?/Me le dirai quando sarò/anch’io nel cimitero...”. Che parole presaghe! Madre e figlio già sono pensati in qualche plaga luminosa del Paradiso l’una di fronte all’altro in tenero atto colloquiale.
E gli spiriti eletti stanno a guardare! Plaudenti.

                                                                         Giuseppe Anania




Introduzione


Non è facile scrivere la storia della propria vita. Non è facile nemmeno soffermarsi a pensare a quegli episodi che hanno contraddistinto il mio essere uomo e l’essere andato avanti nonostante tutte le avversità. In questo interminabile girotondo, causato non solo da forze naturali ma anche dall’intervento di uomini stolti, tutto sembra mosso dalla meditazione di un silenzio che da sempre mi porto dentro, chiedendomi quale parte mi tocca recitare in questo canovaccio affidatomi dal destino. Un destino a volte amaro tanto da renderti di pietra.

In superficie tutto sembra apparentemente tranquillo. Si cerca di simulare l’irto cammino. A volte mi sentivo stimolato e altre ferito dai fatti che mi si snocciolavano davanti senza tregua, per raggiungere sogni rincorsi, rinchiusi in un mondo che ogni bambino si costruisce sulle proprie origini. 
Spesso mi sentivo motivato, ma ero sfiduciato per le tante volte che quei sogni rimanevano irraggiungibili. Vedevo il traguardo da lontano, come un baluardo da conquistare, e ritenevo che per me sarebbe stato una chimera quasi irraggiungibile.
L’età che porto appresso non mi carica più di quell’entusiasmo dei primi tempi. La maggior parte dei programmi che mi ero prefissato all’inizio è rimasta fredda, senza un senso.
In tutta la mia vita fui portatore di lacrime, senza in verità saperlo. 
Le lacrime inondarono la mia famiglia e le persone che la componevano. Ogni cosa che avevo fatto si sbriciolava, malgrado all’inizio sembrasse salda per i principi che mi ero imposto e dai quali cercavo di non discostarmi. 
I sentimenti, quelli rimanevano. Tutte queste vicende fecero di me un incassatore ideale.
Nei momenti di tortura dell’anima, i buoni sentimenti riuscivano a darmi la carica senza farmi ribellare, attendendo sempre un nuovo evento che spesso si portava appresso lo scoramento totale e, quindi, la bandiera bianca in segno di resa. Mancavano quelle energie che servivano a difendermi dalla disperazione. Ho creduto nella fede che non mi ha mai abbandonato, riconoscendo di aver trasgredito solo un comandamento: quello di amare il prossimo mio più di me stesso. Cercando di capire quale giro di boa mi attendeva per entrare nel mondo, ho provato a ricomporre il mosaico che qualcuno aveva distrutto, buttandone via i pezzi come fossero sassi, che avevano l’anima in quest’angolo d’Italia che si chiama Castroreale, in questa terra bellissima che è la Sicilia, in questo triangolo dove sono nato.
Tutto sembra strano e diviene irraggiungibile, per quella collocazione geografica che penalizza ancora oggi. Figuriamoci nel 1946, quando si assisteva alla partenza d’intere famiglie in cerca di fortuna, lasciando la propria terra natia, quella cultura, quel parlare nostrano, che ti hanno visto prima bambino, oggi uomo, alla ricerca del tozzo di pane, per soddisfare il diritto di vivere.
Oggi cerco di mettere a nudo, attraverso il tempo, tutto il mio passato in cui percorrevo quei luoghi, per avere una visione completa di una situazione avvenuta tanti anni fa.
Vado alla ricerca di quei cocci sparsi per ricostruire una parte di quello che non ho potuto immortalare, per ricordarlo ora, poiché proprio in esso si nasconde la verità di quell’angolo buio che mi porto dentro. Eppure, sembrano quattro passi per arrivare a quell’itinerario tante volte rincorso, ma fu pure il costo di una vita...
Non c’è solo la morte fisica... Sembra che con me sia nato pure il dolore. In quella culla senza suoni e in un mondo senza parole si è costruito il mio futuro rimastomi appiccicato addosso.
Sono stato attorniato da ombre simili ai personaggi de I Miserabili di Victor Hugo, senza fare distinzione tra il vissuto e quello ancora da vivere, tra il reale e il surreale, nonché dell’immaginario che tutti abbiamo dentro, mentre scorre l’infanzia.
Sono diventato uomo con l’aiuto di mani amiche, non avendo quelle potenzialità per andare avanti da solo, proprio di quelle mani che hanno catturato le mie e mi hanno indirizzato in una strada dove da solo mi sarei perso. Ho cancellato qualche lacrima che, cadendo, sarebbe servita solo ad irrigare la terra.
Ricordo sempre che l’agnello andò dai lupi, nell’inferno della vita, a sperimentare dove finisce la verità e inizia la menzogna. Ma la menzogna non genera frutti, solo fiori stentati.
Ho sempre cercato di non sopravvivere di espedienti letti, studiati, impressi, che hanno causato stenti e umiliazioni nel percorso della vita. Ho provato amarezze, che altri decidevano per me, in quel modello di vita dove anche un sorriso può nascondere un dolore che commuove.
So pure che l’invidia è nata con l’umanità e tende a isolarti, lentamente distruggerti ed, infine, eliminarti. Ma conoscendo mano a mano ogni cosa sono disposto a superare anche questo ostacolo.
Tentando di non farmi sopraffare dal totale abbandono e rammentando che l’agnello, entrando nella tana dei lupi, finisce per soccombere, mi sono adoperato sempre per andare avanti. In questa giungla umana ho assistito a coloro che mostrano il sorriso o il mezzo sorriso, nel modo ironico di confondere il vero con il falso, come fa un prestigiatore con le carte.
Non ho mai voluto vendetta, ma solo pietà, in questo mondo senza certezze.
Il potere non può e non deve essere privo di saggezza perché il sapere è un derivato della conoscenza. Spesso c’è chi dimentica che la vita e la salute sono un diritto. Questo non dipende certo da me, tenendo presente che l’uomo non può essere spogliato della propria dignità; non è nemmeno un fenomeno da baraccone né un numero di protocollo.
È, invece, una persona capace di provare emozioni, di pensare, di soffrire a volte nel silenzio più totale, cercando di non coinvolgere altri che non sono colpevoli del fardello che tocca portare. È pure ignorato l’aspetto di vita, che viene relegato allo stato animale, voluto dal comportamento di questo recital d’una commedia che dura una vita, mentre la realtà inneggia quella parte vissuta senza applausi. In questo mondo tutto è apparenza. In questo formicaio
di assilli tutti hanno fretta, senza prestare attenzione alle richieste d’aiuto che vengono da più parti. Tutti, almeno una volta nella vita, commettono errori che si potrebbero evitare.
Spesso ognuno di questi “infelici” rischia col perdersi e tutta la società ne è colpevole!...
In quest’andare si registrano sui volti maschere grottesche che celano verità pungenti. A questa società, di cui io faccio parte, ho chiesto aiuto. Questa società, che crede di possedere l’intera visione di un mondo che, emancipandosi, ha perduto il gusto del vero, calpesta nel contempo i sacri valori della vita, della famiglia, il pilastro fondamentale della società. Tutto è deviato dalla falsa informazione, dalla prepotenza, dal frenetico modo di vivere spesso in un mondo che non esiste, inseguendo sempre mere utopie, trovandosi innanzi un mondo ingrato e disumano (che ci circonda come “I figli dei fiori” sostituiti da “I fiori del male”).
È in quest’ottica che si è snodata la mia esistenza. Riaffiora alla mia mente la morale di una favola di Trilussa sempre attuale: “La Colomba e la Rana”...! Oppure la falena di Pavese, che ha usato il fuoco per scaldarsi e ha tratto luce dalle scottature. Spesso mi ricordo di non essere un cultore, ma gli anni che ho vissuto sono stati d’insegnamento di quanto ho visto e registrato lungo il cammino della mia esistenza. Tutti i momenti trascorsi hanno lasciato un segno. Per questo mi rivolgo ai giovani, che appartengono a questo nuovo millennio, per dire loro di non arrendersi mai e di andare avanti. Anche se devo ammettere che chi è solo cerca sempre dentro di sé qualcosa di irraggiungibile e, dopo averlo raggiunto, esso evapora come la nebbia in un giorno pieno di sole. Con la caparbietà di sempre si combatte anche la solitudine, che è la nemica numero uno dell’esistenza. Io la combatto socializzando, dialogando con gli amici ed incamerando ogni cosa, per arricchire il mio sapere, diffondendo con esso lo stemma della pace e della fratellanza. Nel corso del mio tragitto ho incontrato tanti ostacoli, anche se mi circondavo dei miei simili, tante volte in prima fila. Volevo cogliere la vita, nonostante facesse male, mentre gli altri non si accorgevano della sensibilità di cui ero portatore, senza saperlo. Con alcuni riuscivo a dialogare, ma le loro parole erano senza un briciolo di calore umano.
Mancava quella voce amica che incoraggia in un momento critico, nella solitudine. In queste fasi del cammino si forma l’uomo di domani. Tali primi ponti ho dovuto attraversarli da solo. Il mio mondo reale era formato da ombre giganti che oscuravano quella culla divenuta la sede del crescere. Spaziando da quell’angolo buio, i ricordi sono cancellati, ma le sensazioni fanno ancora parte del vivere. Ora mi accingo a scrivere la mia vita che somiglia tanto ad una pagina del libro Cuore Di Edmondo De Amicis. 

                                                          Carmelo Coppolino Billè




Capitolo 1
La verità nascosta dal silenzio.

Inizia da qui la mia storia, per poi tornare a ritroso lungo il cammino... Camaro, una periferia della città di Messina, ubicata sotto i monti Peloritani, con un grappolo di case che ricordano le vecchie costruzioni che hanno resistito al forte terremoto del 1908. Percorrendo il lungo viale, ricavato dalla copertura del torrente che dai monti porta dritto alla battigia del mare e che prende il nome di viale Europa, in un batter d’occhio arrivi proprio al centro della città.
Tante volte nell’età giovanile divoravo quei tre chilometri come niente, ritrovandomi nella notissima piazza Cairoli, nel punto dove il Nobel Salvatore Quasimodo presso il bar “Irrera” faceva il suo punto d’incontro, leggendo agli amici le ultime liriche da lui create e ricevendo commenti. Tra questi amici c’era pure Salvatore Pugliatti che, in seguito, divenne il rettore dell’università della città dello stretto, mentre Quasimodo era un impiegato del Genio Civile di Reggio Calabria. Era di domenica che il poeta attraversava lo stretto per vedersi con i vecchi amici. Lascio alle spalle la pineta che, come una cartolina d’altri tempi, abbellisce lo scenario di questa città, da cui si può estendere lo sguardo sullo stretto di Messina che dall’alto sembra un fiume in piena, in quella lingua di mare. In questi luoghi ho alimentato i miei sogni giovanili che si modifica vanno di pari passo col mio crescere. Prima erano stati sogni di bimbo che ancor oggi mi scorrono davanti. Ricordo il mio primo giorno di scuola. Correva l’anno 1952. Con il grembiule blu e un fiocchetto rosso facevo l’ingresso nel plesso scolastico delle scuole elementari di quella frazione. Iniziava così l’inserimento in una parte di società sino ad allora sconosciuta, accompagnato dalla mano stretta di mia madre Grazia Raffa. Come ogni bimbo, per la nuova esperienza piangevo ed ero contento nello stesso istante, vedendomi affrontare da solo per la prima volta questo passo che per tutti diviene l’inizio di un cammino necessario.
Il cognome del maestro era Amata e noi lo chiamavamo “il professore”: un uomo di mezza età che si faceva rispettare. Aveva un modo di porgere le lezioni che faceva piacere sentire, ma se qualcuno disturbava il suo lavoro non ci pensava due volte a punirlo, togliendosi l’anello e dando uno scappellotto, inducendolo così a stare attento. Metodi d’altri tempi che allora ci sembravano i soli. Per la prima volta nella mia vita sentii chiamare l’appello e il mio nome e cognome risuonò nell’aula, ristrutturata in occasione dell’apertura dell’anno scolastico.
Sentii un brivido quando il maestro pronunciò: «Billè Natale.»
Ed io con una voce bassa e tutta di petto risposi: «presente.»
Tra i compagni di scuola c’erano quelli di gioco, insieme ai quali avevo mosso i primi passi e dato pure qualche calcio al pallone. I miei genitori erano festanti, poiché il loro unico figlio si accingeva a bussare all’enorme porta della vita. Scorrevano quegli anni come nel suo letto un fiume per raggiungere il mare.
Mio padre, Giovanni Billè, uomo di campagna devoto al lavoro e alla propria famiglia, aveva un’intelligenza innata. Il suo orologio era il sole. Dopo tanto lavoro con la zappa divenne un uomo curvo. Lo conoscevano tutti e lo chiamavano “Cumpari Vanni”. Per lo più lavorava nel suo appezzamento di terra. Allora non esisteva la motozappa ed egli doveva fare tutto con la forza delle braccia, a quasi cinquant’anni, mentre per me scorrevano gli anni di scuola.
I ricordi sono tanti, ma quello che più mi colpiva era quando, al mattino, mi chiamava per andare a scuola e mi diceva: «Nataleddu, suggiti ché taddu» E dopo qualche mia marachella egli riusciva a farmi andare a scuola.
Sino alla morte mi ha chiamato con quella lucidità mentale che lo contraddistingueva.
Mia madre, una donna di dieci anni più grande di mio padre, con i capelli brizzolati, sarta part-time e mamma a tempo pieno, mi leggeva le poesie, mi ripeteva qualche passo di storia e soprattutto mi raccomandava di rispettare gli altri. Con questo vangelo recitato, che faceva parte del suo bagaglio culturale, mi infondeva i sani principi del vivere in quel casellario di vita vissuta. Nel corso degli anni mi sono ritrovato con il suo grande amore e le raccomandazioni di percorrere la strada della mia vita conservando ancora il biglietto da visita, che non era scritto ma visibile nel mio modo di fare. Tra la polvere del tempo ritrovo ancora nei miei ricordi la sua dolcezza espressiva che mi segue ovunque vada.
Entrambi i miei genitori mi hanno dato le basi del crescere onesto.
Raggiunta la quarta classe elementare, venne il mio turno della prima comunione. Nel giorno tanto atteso regnava un’aria di festa. Avevo un abito bianco e un giglio tra le mani, mentre i miei genitori indossavano il vestito delle grandi occasioni.
Sembrava tutto surreale e, invece, era vero. Anch’io mi avvicinavo a quel credo nella chiesa di S. Giacomo Apostolo, prendendo posto in prima fila, per essere più vicino al mio Dio. Avevo accanto i parenti e gli amici che avevano condiviso quella parte della mia vita, facendo da cornice al mio volto incredulo, dipingendo in esso un segno di felicità.
Avevo passato i nove anni e mi accingevo all’ultimo delle elementari; nel frattempo andavo al doposcuola dalla signora Gina insieme a mia cugina Graziella, anche lei una Billè, figlia del fratello di mio padre. Le volevo un bene fraterno.
Non brillavamo né lei né io nello studio e dovevamo essere aiutati nelle materie che odiavamo di più, specialmente la matematica, ma alla fine venivamo sempre promossi. Graziella era una bella bambina con i capelli neri e un bel sorriso, nascosto a volte dalla sua timidezza. Abitava vicino a casa mia, insieme ci avviavamo sia a scuola che al doposcuola.
Terminate le elementari, le nostre strade si divisero: era arrivato il momento in cui dovevamo scegliere il nuovo indirizzo scolastico; se però si sbaglia la scelta, si finisce di sperare in quel collegamento che fa da cordone ombelicale tra noi e la vita. Io puntualmente sbagliai. Tra i tanti ricordi di quell’infanzia ci sono momenti in cui vedevo passare il tempo insieme alle sensazioni ed alle emozioni di tutti i giorni e mi trascinavo, senza veramente volerlo, scorrendo a tratti visioni di sogni mai avverati.
Risento i miei stessi passi e la verità galopparmi accanto, senza poterla modificare, costringendomi ad accettare, senza appellarmi, tutte le modifiche che si incontrano durante lo scorrere della vita. Di quel periodo ricordo un episodio ben incuneato nella mente: un compagno di scuola ci comunicò che suo padre voleva emigrare in America con tutta la sua famiglia, in cerca di quella fortuna che mai incontrò nella nostra terra. Si chiamava Mimmo Cacciola e, finita la frequenza della quinta elementare, si trasferì in quel continente,
lasciando il luogo nativo che era Camaro. Da quel momento perdemmo ogni contatto. Essi seguivano la scia che tanti italiani avevano intrapreso prima di loro per scoprire strade sino a quel momento sconosciute. Quel caro ragazzo non aveva potuto modificare la sua vita come io non potevo cambiare la mia; non dipendeva da noi dopotutto: eravamo in balia degli adulti e delle circostanze avverse. Avevo poco più di undici anni, ero intento a giocare insieme ad altri bambini in via Puntale, dove c’era la casa in cui abitavo coi miei genitori. I giochi erano innocenti: infatti, a quei tempi mancava la tecnologia dei giorni nostri, ma non scarseggiava di certo l’inventiva, come quella di trasformare uno straccio in una palla di pezza; si formavano subito le due squadre che dovevano rincorrerla. Oppure giocavamo a nascondino e a tanti altri giochi che ci aiutarono a vivere e ad alimentare la nostra fervida immaginazione. Figuratevi!
A quell’epoca facemmo parlare il giornale della città, La Gazzetta del Sud. Dopo esserci riuniti, noi ragazzi gonfiammo un pallone che uno di noi aveva comprato alla fiera Campionaria di Messina. Quel pallone era grande come una mongolfiera e per gonfiarlo impiegammo un’intera giornata. Poi, da una nonna di via Puntale che per respirare aveva bisogno della bombola d’ossigeno, prendemmo in prestito la cannula e gonfiammo quell’enorme pallone inserendo pure una lampada con una batteria. Sul calar della sera lo lanciammo in cielo: era tanta la forza di quel pallone a
spicchi rossi e bianchi che ci scappò dalle mani; inseguendolo con gli occhi, lo vedemmo posizionato sullo stretto di Messina e tutta la gente fino a Reggio, col naso all’insù inneggiava ad un ufo.
Fu uno spettacolo che interessò circa centomila persone. Le autorità, per rendersi conto di quanto stava succedendo, dall’aeroporto militare di Sigonella, una base militare americana, mandarono in perlustrazione degli aerei, coadiuvati da
altri partiti dagli aeroporti di Reggio Calabria e Catania, che registrarono quanto avevano visto. L’indomani sul giornale della città uscì l’articolo con la foto “Avvistato un ufo sullo stretto”. Noi ragazzini spaventati ci rinchiudemmo in un silenzio di tomba. Alcuni, tra i quali anch’io, ricordano ancora quella visione.
Intanto passavano i mesi e anche la mia vita si avvicinava a scoperte drammatiche.



Carmelo Coppolino Billè bambino. Messina, 1949

 Foto di famiglia. Carmelo Coppolino Billè con i genitori adottivi
durante la sua prima comunione. Messina, 1955





Capitolo 2
La scoperta

Un giorno, avevo appena lasciato papà in campagna e mi dirigevo verso casa, quando incontrai un anziano signore. Mi sembra che tutti lo chiamassero don Biagio. Questi ad un tratto mi chiese se potessi salire in cima a un pioppo, per raccogliere le foglie. Non sapendo il motivo di questa sua richiesta e a cosa potessero servire quelle foglie, mi rifiutai. Riuscivo ad avere più raziocinio di quell’adulto che si arroccava il diritto di mandarmi allo sbaraglio col rischio di precipitare al suolo. Non me la sentivo proprio di arrivare così in alto sul pioppo. Ad un tratto lo sentii inveire contro di me con parole così crude che mi lasciarono di stucco.
«Figlio di puttana, non si sa come sei venuto al mondo.
T’hanno trovato non si sa dove, bastardo che non sei altro, perché non vuoi raccogliere le foglie?» Io rimasi di pietra, mentre lo guardavo stupito; allo stesso tempo guardavo anche il mio amico Giovanni che si trovava lì con me e assistette a questa disgustosa scena. Eravamo solo dei ragazzi e un po’ presi di paura andammo
via lasciandolo lì sul posto. Arrivato a casa, c’era la mamma Grazia in cucina che preparava il pranzo; le chiesi spiegazioni, ma non riuscivo a trovare neanche le parole giuste.
Lei capì subito e cominciò ad innervosirsi, battendo le pentole qua e là; in seguito capii che non ce l’aveva con me ma con quell’uomo prepotente e violento di cui le avevo parla to. Quell’episodio mi lasciò l’amaro in bocca e il desiderio di non ritornare più sull’argomento con lei. Una sera, mentre giocavo a nascondino insieme ai miei amici della borgata, mia madre mi chiamò per la cena ed io, come tutti i bambini di quell’età, scappai e, senza riflettere, le risposi male e lei arrivò infuriata, dandomi un ceffone. Al balcone della sua abitazione c’era la signora Ciccina (Francesca) che ebbe una reazione spontanea, dicendo: «Gli date botte perché non è vostro figlio!» Queste parole entrarono nel mio cuore come una pugnalata e nella mente tutti i miei pensieri subirono uno scombussolamento, facendo nascere dei dubbi sulla mia vera identità. Sconsolato per l’accaduto, ne parlai con padre Letterio, parroco della chiesa di Camaro. Proveniva da Villafranca Tirrena, un uomo colto, preparato sul suo dicastero. Era disponibile con tutti ed aperto ad ogni colloquio sociale. Di me sapeva tutto e alle mie domande, accompagnate da qualche lacrima per lo scoramento, non sapendo più mentire, mi disse: «ora sei un ometto e sei pronto a recepire quanto ti sto dicendo. I tuoi genitori sono quelli che ti hanno adottato. Tanti bimbi soffrono per non aver avuto una famiglia e tu ce l’hai. So soltanto che la tua vera madre è morta quando sei nato. Tu ai tuoi genitori adottivi devi volere bene come loro ne vogliono a te. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, vienimi a trovare. Ciao, Natale.»
Tale rivelazione, a quell’età, quando non avrei potuto prendere delle decisioni, mi mandò nel panico, ma non avevo il coraggio di confidarmi con i miei genitori, ai quali volevo un bene dell’anima. In casa feci finta di niente col sorriso stampato sulla faccia, nascondendo il dolore, mentre mi portavo dentro quell’amara verità che, sommandosi a tutto il resto, per un bambino diveniva un peso troppo grande da trascinarsi appresso.
...Era l’anno 1957, mi iscrissi all’istituto “Juvara” insieme ai gemelli Ballarò. In questo enorme istituto non c’era più il maestro ma i professori. Ognuno di questi per la propria materia, come di consueto, chiamava l’appello degli studenti. Al suono di «Billè Natale» risposi ancora una volta «presente », ma venni convocato in segreteria dove mi richiesero il certificato di nascita storico, spiegandomi che c’era qualcosa da chiarire. Il professore Buemi – lo ricordo con quel cappello degli anni Trenta e quel sorriso aperto e pronto a dialogare, impartendo insegnamenti che facevano parte del suo stile di vita – somigliava, ricordo, al cantante napoletano Aurelio Fierro. Egli, proveniente dal paese in cui ero nato anch’io, incuriosito, mi chiese a quale famiglia appartenessi; io non seppi rispondere, sapevo solo che ero nato a Castroreale. Quel nome, Billè Natale, gli era giunto nuovo e non riusciva a collegarlo a nessuno di quel paese.
Entrammo in un dialogare più profondo ed egli mi promise che l’indomani si sarebbe informato al Comune per capirne qualcosa di più. Dopo alcuni giorni arrivò con il certificato storico di nascita che riportava quanto segue: “Coppolino Carmelo, figlio di Lucio e fu Russo Maria, è stato adottato dalla famiglia Billè di Messina” (oggi Carmelo Coppolino Billè). L’insegnante aveva scoperto la verità, ma rimandò questo difficile colloquio con me; non sapendo come dirmelo, tentennò a lungo: voleva evitarmi altri dolori. Io non riuscivo a capire perché nell’estratto di nascita storico cambiasse solo il mio nome; mi ritrovavo, comunque, dentro il grande palco della vita, non più come Natale Billè ma come Carmelo Billè.
Continuai con caparbietà ad indagare, mantenendo il silenzio.
Chiesi informazioni su dove potessi trovare un giornale che parlava della cronaca dell’anno 1946. Qualcuno m’indicò la biblioteca dell’università. Un giorno marinai la scuola e mi nascosi dentro l’Ateneo della città dello stretto, dove c’erano enormi scaffali muniti di una scala scorrevole che toccava quasi il tetto, con carpette enormi evidenziate da scritte a lettere cubitali, nelle quali erano raccolte le pagine dei giornali con la cronaca di Messina e provincia. Afferrai l’enorme plico dell’anno 1946: a stento riuscii a deporlo sul tavolo in mezzo allo stanzone.
All’interno il plico conteneva fogli, o per meglio dire paginoni, dove si parlava dei reduci di guerra, di qualche soldato che ancora non era tornato, di politica, di calcio e di cronaca redatti dal quotidiano La Tribuna; proseguendo la mia lettura, iniziai a scorrere quegli enormi paginoni, risalendo alla data dopo la mia nascita. In quel mese non trovai nulla, ma ai primi di marzo – esattamente il sei marzo di quell’anno – lessi un articolo che recitava: “Uccide la moglie infedele, il marito è latitante. Delitto successo a Scaletta Zanclea; su La Tribuna di domani ci saranno tutte le delucidazioni”.
Quello scritto mi congelò il sangue, ma la località menzionata non mi diceva nulla! Girai pagina e gli occhi si posarono su una frase evidenziata dal mio sesto senso. “Rettifichiamo: l’omicidio non è successo a Scaletta Zanclea ma a Castroreale montagna...”. Continuai a sfogliare ancora le pagine e un altro articolo esponeva: “La malcapitata recava in braccio un bimbo di un mese e tre giorni di nome Carmelo, la donna si è accasciata al suolo insieme al neonato cercando di proteggerlo; accorsero i fratelli e le sue ultime
parole furono: «Vi raccomando i miei figli.» Poi spirò, lasciando per sempre questa luce terrena, inoltrandosi nel buio della notte, avvolta dalle tenebre a soli ventisette anni; il marito è latitante ed il piccolo è stato portato al brefotrofio della via XXIV Maggio di Messina”. Quando la mia mente registrò tutto questo, capii che quel bimbo ero io e per quasi dieci minuti mi mancò il fiato, mi accorsi solo marginalmente di non riuscire più a respirare. Accompagnato da un pianto straziato, avevo la sensazione che mia madre fosse stata uccisa in quel momento: mi scorrevano innanzi agli occhi quelle immagini che non avevo mai visto ma che nell’inconscio avevo ricostruito insieme a quel gesto del suo abbraccio che mi aveva protetto. Vi lascio immaginare come mi sentivo: il sangue mi si congelò in corpo, la bocca era asciutta e serrata, il cuore batteva come i rintocchi di una campana stonata che rimbombavano nelle mie orecchie. Mi sentii oppresso da questa verità più grande dell’età che avevo, ecco perché il mio viso cambiava di umore: interpretava questa parte reale del mio dramma. Cercai di rinchiudere tutto dentro quel cassetto che era il mio cuore, sperando che ancora ci fosse un poco di spazio per celare le lacrime che avrei dovuto nascondere di nuovo senza poterle esternare: dovevo tenerle solo per me, insieme al dolore che non aveva eguali, specie se dovevo associarli a un sorriso finto. Ancora una volta avevo bisogno di un prete, per continuare la confessione iniziata qualche giorno prima, sfogarmi con qualcuno, rivelando quanto avevo appreso da poco con quel continuo cambiamento dei fotogrammi che, senza requie, avevano invaso il mio pensiero. Raccontai tutto al parroco, che mi aveva conosciuto da piccolino, con gli occhi adombrati di lacrime e con lo sguardo assente. Il parroco mi ascoltò con tanto interesse ed anche i suoi occhi furono contagiati dalle mie lacrime; alla fine mi disse: «Solo la fede può essere un rifugio. Lungo la tua via troverai altri dolori che ti cammineranno accanto ma, percorrendo quella strada che per te sarà quella del perdono, da solo riuscirai ad arginare questo tuo dolore. Io sono sempre qua; se hai bisogno di qualsiasi cosa chiamami e ti sarò vicino.» Tutte queste scoperte non avevano indebolito il mio amore per i miei genitori, anzi l’avevano rigenerato. Arrivato a casa, dissi che mi faceva male la testa, comunque cenai insieme a loro e poi andai a letto, cercando di dormire, ma i pensieri richiamavano ombre che vidi per tutta la notte. Avevo in gola un singhiozzo che trattenevo a stento per non farmi scorgere. Mentre mia madre mi sistemava le coperte, io fingevo di dormire nel silenzio notturno accalappiato dal buio dove i pensieri tacitamente andavano a rintanarsi, per torturarmi.
Durante la ricerca del sonno meditavo sul fatto che non esiste gesto più grande di quello di adottare un bambino, perché poi, a parte il discorso genetico, tua madre e tuo padre sono coloro che ti crescono, con quelle premure che hanno cancellato molte mie lacrime, facendomi ritrovare il sorriso e, anche se il mio grazie non ripaga nessuno, sarò sempre riconoscente. Avevo trovato in loro la famiglia e un punto di riferimento che segnò lo scorrere di quegli anni. In quella contrada di Messina, gli appuntamenti cadenzati con i coetanei riportavano alla normalità il mio proseguo al vivere: era un quadro che mi apparteneva, imbellito anche dalla loro presenza, correlato dai loro abbracci o dai rimproveri che servirono tanto alla mia crescita, con la maturità di un ometto raggiunta prima ancora dell’età anagrafica. Le lacrime nascoste, messe in un calice, servirono a maturarmi. Dal mio lettino con lo sguardo catturavo ogni visione che mi trasportava alla verità: le premure o la fettina di carne, solo per me, mi fecero capire che l’amore non ha confini, ma gratuitamente si offre nel contesto della vita azzannata da quel destino, non voluto ma corretto e sorretto da quelle mani che protese hanno accompagnato le mie! Furono queste le visioni di quelle notti, che mi apparivano spettrali, mentre abbracciavo il cuscino.
L’indomani mattina non vedevo l’ora che suonasse la campanella per poter parlare col professore di Castroreale; era stato lui che dal certificato storico aveva ricostruito le mie origini. Avevamo dieci minuti di ricreazione, ma bastarono per spiegarci, appartati in un angolo dell’aula. Il Buemi non voleva dirmi la verità; cercò di addolcire quell’amaro che anche per lui era divenuto veleno, inventando una favola nuova che, però, in casi simili è sempre la stessa e si incrocia con la vera storia. Anch’egli, infatti, collegando tempi e luoghi del posto dove entrambi eravamo nati, aveva vissuto questo mio dramma.
Lo interruppi subito, raccontando quello che avevo fatto il giorno prima e che sapevo la verità. Il professore mi guardò e mi disse: «sei un piccolo grande uomo» e non ebbe più parole; istintivamente mi abbracciò forte come per farmi coraggio, «vieni a trovarmi, quando vuoi.» La mia mente fu sconvolta ancora una volta da questi eventi.



 Maria Lucia Russo, madre di Carmelo, davanti alla sua casa. Castroreale, 1946





Capitolo 3
Castroreale: La meta

In quel periodo andavo bene in bici e mi sentivo un piccolo Coppi; decisi dunque di recarmi di persona in quel paese che non conoscevo ma conosceva me: ogni documento evidenziava il mio luogo di nascita. Anche mia madre aveva inventato una favola per nascondermi la verità: «siamo stati sfollati dopo la guerra e ci trovavamo in quel paese e lì sei nato tu.» Io ho creduto per anni a ognuna di queste parole.
Non sapevo neanche dove fosse geograficamente Castroreale; attraverso le informazioni seppi che era sopra Barcellona Pozzo di Gotto. Inforcai una bici da corsa, una “Legnano” di terza mano, e mi avventurai verso la meta prefissatami. Arrivato nella città del Longano, chiesi dove si trovava quel paese. Un vecchietto piuttosto sbigottito mi domandò se dovevo andare in bici o col bus; sfoderando un sorriso risposi fiero: «con la bici!» Così mi avviai dove quell’uomo mi aveva indicato. Per la verità la salita era dura, anche perché avevo valicato i Peloritani ed ero quasi giunto ai Nebrodi.
Castroreale è dunque il luogo che mi ha visto nascere in un’apparizione momentanea; geograficamente è situato tra i Peloritani e i Nebrodi, da dove si può ammirare ciò che la natura ha messo insieme: tutte quelle bellezze che imperano in una offerta visiva immortalata dallo sguardo, che funge da obiettivo con sviluppo istantaneo d’una foto.
La visione rimane impressa nel ricordo che sfoglio di tanto in tanto nella mente: lo scenario delle Eolie e il golfo di Milazzo, dominio visuale tra monti, vallate e mare, quando ancora i ricordi della guerra erano visibili in tutto il territorio nazionale. Era l’anno 1946, nel cui mese di febbraio nascevo, ma quasi subito quell’affetto che mi aveva generato mi lasciò e mi fu negato chiamarla mamma. Oltre me c’erano altri due pargoli: Totuccio (Salvatore) e Maria Pia che, anche se nati prima di me, non erano meno bisognosi d’affetto e d’amore. Mancata mamma, oltre al lutto visivo c’era pure quello del cuore: fui spedito tra i bimbi del dolore o quelli del pianto; il brefotrofio divenne la mia nuova casa, via XXIV Maggio a Messina la mia nuova dimora. Rimasi tre anni in quei lettini contornati da una cornice di pianto che privava di amore e affetto coloro che lo cercano e chiamano.
Arrivai nella piazza del paese alle dieci e quindici minuti, me lo fece notare l’orologio del campanile appena raggiunto; da premettere che da Messina ero partito alle ore 6,50 e già ero arrivato al mio obiettivo. Piovigginava, eravamo in ottobre avanzato. Entrai in una chiesa con lo sguardo un poco smarrito e mi diressi verso un uomo che accendeva le candele sull’altare quando incrociai lo sguardo di un prete, al quale chiesi se potevo disturbarlo un attimo; lui con modi garbati e gentili mi invitò alla volta della sacrestia. «Sono padre Giacinta» disse il parroco della chiesa «in che cosa posso esserti utile?» La mia risposta fu breve ma precisa. «Sono nato qua ma non so chi sono; penso che questo sia l’unico luogo dove posso attingere notizie sulla mia vera identità.» 
«Come ti chiami?»
«Carmelo Billè» risposi tutto affannato.
Aprì un grosso registro, incorniciato dalla polvere e, sfogliandone
le pagine, risalì all’anno di nascita, al mese e al giorno in questione e si soffermò su due Carmelo, poi continuò «figlio di Lucio e di Russo Maria.» Io già avevo letto questi nomi e, quindi, ero preparato, ma come faceva il buon prete a dirlo a un bambino? Certo anche per lui non era una cosa facile: iniziò una nuova versione, ma anche questa volta interruppi l’interlocutore e andai
subito al dunque.
Io, che avevo già visto il certificato di nascita storico e l’articolo su La Tribuna, l’avevo subito collegato al Coppolino, mentre il prete al primo impatto non c’era arrivato. «Padre, sono in possesso del certificato di nascita ed uno dei due Carmelo sono io, ed esattamente quello generato da Luciano e Maria Russo. Padre, so tutto, ho inghiottito tanti bocconi amari in quest’ultimo periodo.» Il prete mi fissò negli occhi e borbottò «sei piccolo d’età ma allo stesso tempo grande! Vieni, ti offro una cioccolata calda» e ci avviammo verso l’unico bar della piazza. Adesso sembrava che avesse voglia di continuare a parlarmi. Mi disse pure che quel signore sull’altare, che stava accendendo le candele, era il fratello di mia madre ma, siccome era ammalato di cuore, era preferibile al momento non dirgli niente. Ritornammo in chiesa ed io lanciai con lo sguardo un abbraccio a quell’uomo che era mio zio e il prete mi rassicurò: «Poi glielo dirò io con calma.»
Mi fece salire su una Seicento di color verde chiaro e ci avviammo verso il cimitero posto al di là del paese. Nel breve tratto di viaggio mi parlò di mia madre, che non aveva conosciuto ma di cui aveva tanto sentito parlare, decantandone le virtù di donna di fede. Entrammo nel sacro luogo, dove i problemi si lasciano dietro il cancello insieme ai viventi, e ci incamminammo verso la tomba. Il tempo continuava con la sua pioggerellina sottile come tante lacrime versate dall’aldilà quando intrapresi la salita che portava alla tomba di mia madre; alzai lo sguardo e chiesi al prete dove fosse sepolta. Alla domanda esitò un istante e con la voce balbettante mi disse: «tua madre ti ha chiamato.» Vidi in quel volto lo smarrimento di un uomo nella più totale difficoltà.
Senza volerlo, gli occhi si riempirono di lacrime sul volto tirato, ma ero contento di avere raggiunto quel che da tanti giorni cercavo, come fosse un richiamo. Fu così che trovai mia madre, per la prima volta della mia esistenza, sotto una terra gelida ed una croce arrugginita, con la scritta: “Qui giace Russo Maria. Una prece”. Una foto mi fece soffermare su quei lineamenti di donna bellissima, e ritenevo quasi impossibile che a soli ventisette anni si trovasse in quel luogo per colpa di una mano omicida. Mi chinai a deporre un fiore di campo su quella tomba che tanto avevo desiderato vedere. Insieme al mio, il buon prete aveva preso in chiesa altri fiori, destinandoli a mia madre. Questo fu uno dei momenti in cui nessuno può aiutare: ci si isola nel pianto che graffia pure il silenzio, per sfogare la rabbia che si ha dentro rinchiudendola in noi stessi, unici destinatari di quegli istanti.
Il prete mi annunciò che avevo un fratello e una sorella e che anche loro erano stati toccati da questa tragedia che aveva segnato ogni loro passo.
Diveniva così incerto affrontare e chiarire anche le difficoltà nate da questa disgrazia. Le nostre strade erano state divise. Io al brefotrofio per tre lunghi anni, poi adottato. Mio fratello Totuccio aveva poco più di sei anni ed aveva vissuto in diretta il dramma, senza poter appellarsi a quanto accaduto, inondando il volto di lacrime amare, soffrendo per quel silenzio che non ha più voce. La vita d’un tratto era cambiata anche per lui che era il più grande, anche se pur sempre un ragazzino.
Da quel momento i suoi giochi di bambino erano finiti; abitava ora da uno zio ora da un altro, poi a Genova da un terzo zio, o a Castroreale con altri zii in quella confusione accompagnata dalle lacrime, che, però, non facevano risorgere chi ci aveva lasciato, anzi aumentavano la certezza che il nostro piccolo nucleo familiare era stato distrutto per sempre. Anche mia sorella Cettina, che all’epoca aveva tre anni, era stata adottata quasi subito da una famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto; lei, però, aveva cancellato tutta quella confusione chiamando mamma e papà coloro che si Erano prestati ad aiutarla a dimenticare momenti di un tragitto irto, spigoloso, che non le sarebbe stato facile superare. Si era dedicata col cuore pieno di gratitudine ai suoi genitori adottivi, che ha stimato e cui ha voluto bene sempre, anche dopo la loro morte. Anch’io ero grato ai miei genitori, che avevano contribuito a spianare quel cammino in salita, sin da quando s’inizia a percorrerlo. Se c’è una cosa al di sopra della carità è quella di creare uno spiraglio di felicità; in questo modo si farà felice un’anima che da sola non potrà mai comprare un affetto. L’amore e l’affetto, infatti, sono sentimenti che non si possono comprare, ma devono essere donati.
Tutta la mia vita privata divenne di dominio pubblico. Quel fatto di cronaca, che per tanti anni era stato archiviato, ma che affiorava sempre nei ricordi, diveniva parte integrante della quotidianità, come in una valle che mai vide il sole. La differenza tra sogno e realtà è una sola: la realtà la devi vivere, mentre il sogno viene trafitto dai raggi mattutini del sole...
Per affrontare il nuovo giorno si trascinano negli occhi i ricordi del passato, spesso interrotti dalle lacerazioni avvenute nel corso della vita. Ogni volta che si trova davanti ad un incrocio, ognuno intraprende una strada con la speranza che non sia un vicolo cieco, per continuare a vivere da dove la vita si era interrotta, annotando nell’agenda passato e presente, che sommati formano la vita stessa, alla ricerca di risposte che a volte risultano insoddisfacenti.
Anche per i miei fratelli l’ingresso nella vita si era rivelato nient’altro che un crudele scherzo del destino. Mio fratello Totuccio, mia sorella Cettina ed io eravamo stati catapultati su quel palcoscenico per interpretare una parte che non avremmo voluto recitare: una parte difficile, un cammino stentato con la scomparsa del sorriso che contraddistingue la spensieratezza dell’infanzia. Altrettanto duri si prospettavano gli anni a venire: solo lacrime avremmo versato su volti provati. E, senza saperlo, si diviene eroi dell’esistenza, senza per altro distruggere il passato che è testimone di amarezze, conservandone il ricordo a tutt’oggi.



Castroreale oggi



Stretto di Messina





Capitolo 4
Il protagonista: ero sempre io

Io ero quella creatura che andava arrampicandosi sulle montagne più impensate, nei luoghi che furono la culla per il raggiungimento dell’oggi, chiedendomi se l’ieri poteva mutare l’attuale che trascina incorreggibile il passato. Fermo il tempo, sfogliando l’esistenza sino al momento conosciuta e le strade percorse in questa via di andata. Le immagini fanno da cornice a quello che capto in tali visioni. Il ricordo dello strascico che impera: il natio, momento subito perduto insieme all’affetto più caro nel tragico istante che sempre ricordo; il brefotrofio, manto e raccolta di pianti e di gemiti isolati che cercano aiuto; il collegio, formazione per chi come me cercava l’assoluto nell’amore del vivere barattato con quello del sopravvivere; l’esperienza d’una vuota ed astratta immagine con un biglietto d’ingresso a questo spettacolo del mondo, senza poter chiedere a nessuno la trama del film in oggetto. 
E il protagonista, senza saperlo, ero sempre io, con i primi approcci d’amore per arricchire l’inutile comparsa terrena, cercando nell’affetto il riempimento di un vuoto in cui, senza coccole né carezze e baci avevo attraversato quell’età dell’infanzia delicata entro le mura d’un brefotrofio, in attesa delle braccia aperte di mamma Grazia e papà Giovanni, che sono stati il manto della misericordia in quegl’istanti confusi per la mia piccola età in cerca d’aiuto. Essi tramutarono quel pianto in un sorriso, per affrontare al galoppo la vita; questo ricordo fa ancora parte dei miei pensieri, essendo il risultato della vita di oggi.
Avevo raggiunto ciò che cercavo. Risalire alle mie origini mi aveva lasciato più confuso di prima e con l’amaro in bocca.
Adesso sapevo, ma alcune volte è meglio ignorare per la pace dell’anima. E proprio per questo era più difficile continuare a studiare, anche se dentro avevo tanta voglia di conoscere e di scoprire. C’erano molti punti che si rincorrevano nella mia mente, ai quali non potevo dare risposte. A volte, in silenzio, pensavo che di certo qualcuno aveva sparlato sul conto di mia madre, insinuando cose non vere e ci restavo male: mi riusciva difficile credere che qualche essere umano provasse gusto quando una famiglia veniva decimata. Ma qualcuno aveva peccato e quel qualcuno era il marito di mia madre, che spiava dai tetti la povera donna. Era questa visione che rincorrevo in ogni ora del giorno e della notte. Anche lo sparo, che aveva posto fine alla sua vita, rimbombava nelle mie orecchie dall’udito affinato da pensieri che mi ferivano, e in silenzio soffrivo senza poter chiedere aiuto.
Immaginai anche una figura di uomo incatenato che mi additava, dicendo: «questo non è mio figlio.» La mia mente era oscurata da brutti pensieri e non era più disposta a concentrarsi sullo studio. A quel punto ci fu un netto rifiuto: ero troppo giovane per gestire tutte quelle verità pungenti che facevano da cornice alla mia giovane età. Nel corso del mio andare, condividevo con i miei genitori quasi tutto, ma alcune cose le tenevo per me, per non dar loro un dispiacere. Una parte di questi segreti non potevano essere esternati ma allo stesso tempo ero incapace di affrontarli da solo, a causa della mia inesperienza; inoltre, rifiutavo quegli avvenimenti
a livello dell’inconscio. Ugualmente essi mi erano sempre accanto ed hanno cambiato la mia vita. Certo, la letteratura e le discipline umanistiche mi attraevano e mi rimasero dentro. L’amore per la carta stampata mi portò ad allestire “la biblioteca del povero” nella stanzetta di via Puntale a Camaro, andando alla ricerca nella spazzatura di qualsiasi genere di libro. A quell’epoca risale la mia lirica “Fogli di un libro”, nata sulla circonvallazione di Messina, in memoria di Dante. Finito il primo anno di scuola media, che non ho mai completato, fui egualmente promosso alla seconda e allora decisi di non frequentare più: era troppo il peso che portavo dentro e non ce la facevo.
Subito dopo arrivò dal tribunale la comunicazione che c’era stato un errore nell’adozione, essendo all’epoca mia madre già in età avanzata, cioè aveva superato i quarant’anni e per questo motivo l’adozione non era più valida. Con l’aiuto dei consiglieri di famiglia, compreso il parroco di quella comunità, i miei genitori decisero di portarmi alla “Città del ragazzo” di Messina, gestita da don Antonino Trovato detto “padre Nino”.
Qui trovai tante realtà che somigliavano alla mia: ognuno dei ragazzi aveva una sua storia, che non poteva condividere con nessuno; i loro sguardi non erano sereni, perché nella loro esistenza mancavano un abbraccio, un bacio ed anche la presenza di quelle figure importanti che accompagnano nel cammino. A volte anche un rimprovero è necessario: facendo parte integrante del quotidiano, matura e aiuta a crescere.
Ma l’ambiente di cui parlo è conosciuto da pochi. Di mattina l’adunata e l’alzabandiera, poi ognuno ai propri reparti: la falegnameria, la tipografia, oppure la squadra di elettricisti, come me. Al suono della campanella tutti nella sala mensa con un enorme tavolo in mezzo: sembrava proprio una famiglia allargata ma gli occhi, che cercavano invano nel vuoto, la dicevano lunga.
Ci mettevamo tutti in colonna con le nostre posate, pronti per ricevere il pasto, attendendo non so, forse un miracolo che non si sarebbe mai avverato. Un enorme quadro in quella sala mensa, che raffigurava don Luigi Sturzo, faceva capire che c’era qualcuno con alti valori morali che non abbandonava chi era solo, e in quella figura di uomo rivedevo padre Nino, che aveva raccolto tanti bambini. Quei ragazzi, però, portavano impressa nei loro volti la mancanza d’affetto e d’amore: carenze che si trasformavano in un boomerang, facendo tanto male. Non c’era granché da mangiare! Forse eravamo in troppi, forse mancavano i fondi necessari per sfamarci come si deve. Era peggio di oggi. Fatto sta che mi era venuta la brillante idea di fare una copia della chiave della dispensa dell’istituto. Un segreto che condivisi con molti altri. Di sera, quando tutti andavano a dormire, insieme a un gruppo di amici miei mi recavo in cucina. Cucinavamo pasta e consumavamo quei formaggi che venivano tenuti sotto chiave per i signori istitutori, insomma per quelli che comandavano tutta la baracca e che si rimpinzavano, mentre noi dovevamo accontentarci di ben poca cosa.
Un giorno venne a trovarci un funzionario, uno di quelli che visitano questi tristi luoghi – e che mettono un po’ di movimento in tutto l’istituto – per rendere più accogliente il posto; a loro veniva offerto più di quello che noi ricevevamo nel corso dell’anno. Forse si preparò della pasta al forno per l’occasione, non ricordo bene, ma questo non ha molta importanza, fatto sta che la pasta al forno era solo per lui e per pochi altri.
Non riuscii a trattenermi in quell’occasione: mi alzai in piedi, tenendo in mano il piatto con la pastina del giorno prima e la mia bocca si aprì e parlò per me, davanti a quell’eminenza: «Oggi è festa grande, mentre noi continuiamo a mangiare ’sta schifezza.»
Ciò mi costò la punizione per una settimana.
Ricordo un altro episodio tra i tanti che mi accompagnarono durante la mia avventura in collegio. Cantavamo in chiesa l’Ave Maria, lo facevamo spesso; quella volta mi scappò dalla bocca: «Ave, Ave, avemu fami. » Gli amici quel giorno decisero di farmi uno scherzo mancino. Quando cominciò l’Ave Maria, si zittirono tutti e si sentì in quel grande spazio solo la mia voce. Il prete per
niente scomposto rispose: «ora, ora manciamu.»
Di solito, dopo l’ora dedicata al pranzo, veniva distribuita la posta; anche questo era un momento di grande silenzio, in cui i pensieri venivano trasportati come aquiloni verso il passato. Quelli che ne soffrivano di più erano coloro che non ricevevano nemmeno un rigo, dove magari ci fosse scritto: “ti voglio bene”. In questi momenti ti ricordi che esisti e che esiste qualcun altro che si ricorda di te. Quella lettera non la condividi con nessuno ed in un angolo appartato la divori e, come un oggetto prezioso, la conservi e la custodisci gelosamente.
Io non rubai mai nella mia vita ma quella volta, spinto non so da quale strana forza, sottrassi una lettera indirizzata ad un mio compagno di cordata. La lessi e piansi e cercai di pensare che quel giorno fosse diverso da ogni altro. In quel girone dantesco i giorni sembravano tutti uguali, variati solo dalla pioggia o dal vento, e meno male che quelli luminosi e pieni di sole primeggiano nella nostra bella Sicilia. Io ero seduto con un bambino di Castroreale, si chiamava Nino. Il tempo non passava mai e tante volte gettavamo lo sguardo al di là dei cancelli dove la vita scorreva in tutt’altro modo, pensando alla felicità degli altri. Il mondo visto da dentro sembrava diverso, assumeva un’altra identità; parlavamo spesso delle disavventure e delle storie di vita che ci avevano condotto in collegio. Ricordo, mentre lottavo costantemente per vivere, che anche al di fuori del cancello c’era un’anima buona che faceva da culla ai miei pensieri; chi fosse quella persona, che deponeva enormi sacchi colmi per aiutare noi infelici, non si era mai saputo. Spinto dalla curiosità, non resistetti: volli vedere chi fosse, chi lasciava quella carità e fuggiva, perché non voleva essere ringraziato. Una signora dal balconcino di fronte al cancello di servizio, che da qualche tempo immortalava la scena, alla mia domanda: «chi porta tutto questo ben di Dio?» rispose che era una bella donna alta, e che tutti i venerdì portava questi sacchi e poi andava via di fretta. In quei sacchi c’era di tutto: dai vestiti alle scarpe, dal pan di cena al cioccolato e noi, allungando le mani attraverso i ferri del cancello, in un batter d’occhio ci impossessavamo di quanto c’era dato in dono. Volevo solo scoprire chi era questa signora dall’aspetto di un’attrice e mi nascosi per vedere il suo volto. Quello stesso giorno dopo poco arrivò con due sacchi pieni, come sempre correndo, uno scialle in testa, ma questa volta un colpo di vento scoprì la sua identità.
Non vi nascondo che rimasi abbagliato e il suo sguardo penetrò nel mio, mentre la signora, che aveva assistito alla scena dal solito balconcino, la riconobbe, ed esclamò: «è mamma Assunta da Curcuraci, quella che parla con Padre Pio nonché figlia spirituale del monaco di Pietrelcina, per tanti un Santo da venerare.»
La settimana dopo mi feci vedere e la ringraziai per conto dei bambini. Lei non si scompose per niente e mi chiese come mi chiamavo; dissi il mio nome e poi per anni non l’ho vista più. Mi lasciò il suo sguardo e il suo sorriso, che colgo di tanto in tanto per schiacciare qualche pensiero triste.
Intanto, il tempo camminava inesorabile: eravamo alle porte del 1959. Io avevo tredici anni e un altro colpo di scena si registrò sul mio andare incontro alla vita. Mentre dormivo profondamente, fui colto da un attacco di epilessia, come venne diagnosticato dai medici dell’ospedale “Piemonte” di Messina, dove ero stato ricoverato. Ma la cosa più strana fu quando sulla parete vidi una foto di Padre Pio; non capivo chi l’avesse messa ma un ricoverato mi disse che, mentre dormivo, quel pomeriggio era venuta una elegante signora la quale mi aveva accarezzato, mi aveva dato un bacio e si era allontanata. Da questo gesto capii che si trattava di mamma Assunta! Ecco che ancora una volta le nostre strade si congiungevano.
Il primario chiese a mia madre se fossi per caso caduto quando ero piccolo, ma lei non seppe rispondere. Mi diedero una cura per la malattia diagnosticata e mi dimisero. Ritornai dai miei, ma quel focolaio ancora persisteva; mi affidai allora solo alla volontà di Dio. Col tempo si verificò che il primario aveva avuto ragione: la causa fu la caduta nel momento in cui mia madre biologica era stata uccisa. Dopo lo sparo, mia madre morente mi aveva trascinato con sé. Avevo un mese e tre giorni. La caduta ancora trasmetteva quelle tracce, le cui crisi mi accompagnarono per tanti, lunghissimi anni.
Tanti bambini hanno sofferto, senza poter saggiare un affetto. Avevo un vantaggio rispetto agli altri: il sabato e la domenica li passavo con i miei genitori adottivi, quindi avevo un punto di riferimento che altri non avevano. Del collegio ricordo tante cose, ma una tra tutte, che non dimenticherò mai, fu questa: un ragazzo della mia età, menomato a una gamba, rimaneva sempre scartato per l’adozione o per l’affiliazione in una famiglia. Un giorno eravamo tutti in fila nello spiazzale. Io naturalmente ero dietro, perché avevo già trovato una famiglia, mentre coloro che erano in lizza per l’adozione erano tutti avanti, come si espone qualcosa da vendere ad un pubblico esigente. Arrivò sul piazzale un enorme macchinone – non so se era guidato dal proprietario o dall’autista – da cui scese una signora accompagnata dal marito e passò in rassegna quei poveri infelici messi in mostra; quando arrivarono all’altezza di Stefano, io da dietro gli assestai una bella spinta che lo fece cadere ai piedi della donna, la quale esclamò: «voglio questo, perché Dio me lo ha mandato.» Non potete sapere quale fu la mia gioia! Ci fu l’attesa dei documenti burocratici e, dopo qualche mese, ci lasciò anche lui per quell’avventura che è la vita. Poi abbiamo saputo che il genitore adottivo era un medico, che in poco tempo lo aveva fatto operare a Bologna; l’intervento era riuscito e il ragazzo era ritornato alla normalità.
Tra le tante storie, ne registrai una che tenni a braccetto, condividendo con gli altri quei momenti oggettivamente amari, ma che fanno parte del proprio quadro e della propria cornice. Un giorno arrivò un ragazzino cieco; dissero che sarebbe rimasto per poco tempo, in quanto l’istituto non era adatto a lui; lo vidi rannicchiato in un angolo, mi avvicinai chiedendo come si chiamasse e lui rispose: «Piero.» Cominciai a conversare con lui di tutto ciò che ci circondava ed egli mi disse che attraverso le mie parole lui vedeva. Ma quella fu una situazione provvisoria, infatti dopo un paio di giorni fu trasferito in un istituto per ciechi; ci salutammo e promisi che sarei andato a trovarlo, e così feci, recandomi da lui tante altre volte. Uscimmo insieme per tre anni; posso dire che ero appagato dal mio parlare ed anche lui era entusiasta delle mie illustrazioni della realtà; è stata un’esperienza che non potrò cancellare dalla mia vita. Una volta andai all’istituto e in portineria c’era una lettera, scritta per lui da qualcuno, che diceva testualmente: «mi hanno adottato i miei zii di Bologna, spero d’incontrarti un giorno e grazie per quello che hai fatto per me, ti abbraccio forte. Piero.» Per me fu come un fulmine a ciel sereno. Da quel momento persi tutti i contatti con lui e un’altra lacrima gelida si posò sulle mie guance come per accarezzarmi, lasciando ancora una volta un solco profondo.
Certo è che su un arto si può intervenire, ma su tante storie vere che ho sentito in collegio, rimane solo la disperazione. Il finale è per tutti uguale: ogni cosa ha una nascita ed una morte, ed è questa ultima che trancia il proseguo, ricordando il trascorso. In questo istituto rimasi tre anni. Mi avevano aggregato come aiuto elettricista del collegio ad un tecnico del Comune di Messina dall’aspetto sportivo che nelle ore libere si dedicava al collegio; per me era come un padre, tante volte m’invitava a casa sua, che era vicina al plesso collegiale. Figuratevi che in mezzo a tutto questo trambusto mi accorsi di avere anch’io un cuore, m’innamorai – si fa per dire – di una suora che avevo sempre visto con gli abiti talari e mai ne avevo visto i capelli. La parola “amore” era troppo grossa per me: si trattava di qualcosa che si avvicinava di più alla ricerca dell’amore platonico o materno. Scoprii, con gli altri coetanei, l’esistenza di un sentimento, da cui tante volte gli esseri umani si fanno trasportare; io ero piccolo, lei una trentenne, ma la suora dopo cinque mesi fu trasferita. Avevo saggiato un momento di felicità che rimane solo nei miei ricordi e che difficilmente perderò; si chiamava Maria! Questo nome è sempre presente nel cammino che mi accompagna in ogni dove e mi diviene subito familiare e dolcissimo a pronunziare. Incominciai a scrivere le prime poesie in quei momenti del calendario della vita, tra le quali: “Ai miei compagni di collegio”,
“La preghiera”, “Un ricordo lontano”, “Il mio paese” e altre.
Era questo il modo di colloquiare con me stesso, ponendomi domande e dandomi risposte, le quali non sempre chiarivano quei perché, che rimanevano privi di significato; allora mi rannicchiavo dentro la mia solitudine che ormai era divenuta la mia compagna abituale. Uscito dal collegio, facendo tesoro di quella esperienza collegiale da elettricista, trovai un lavoro che mi permise di avere il biglietto di entrata in questa società robotizzata. Figuratevi che, per attraversare un incrocio con il semaforo, la prima volta mi misi a piangere, perché quel mondo era stato sempre visto da dietro i cancelli, quindi dovevo affrontare una verità lontana dalle mie abitudini. Andavo a lavorare in via Croce Rossa, vicino Mare Grosso, dove c’era una fabbrica di lampadari; il datore di lavoro mi prese a ben volere. Si chiamava Salvatore. Ricordo i suoi capelli brizzolati e la voce chiara per impartire gli ordini su quanto bisognava fare. Egli, dandomi tanta fiducia, mi consegnò le chiavi dei tre negozi, che puntualmente tutte le mattine aprivo, per mettere in mostra le vetrine. Rimasi con questa ditta per ben tre anni e devo dire che mi volevano tutti un gran bene; moltissime volte ero invitato a pranzo con i suoi familiari e ciò mi gratificava, riempiendo una parte delle mie grigie giornate. Ma volli provare un altro lavoro, quello dell’elettronica. Fui assunto da un ingegnere di via dei Mille a Messina. Il tempo scorreva e, pur essendo tanto impegnato nel lavoro, non riuscivo a dimenticare il passato che come un’ombra si proiettava sempre sul mio presente, standomi accanto e divorandomi.


Un funzionario, in visita ufficiale, accompagnato all’uscita da padre Nino tra due file di bambini, ospiti dell’istituto. Anno 1958






Capitolo 5
Incontro con gli zii

Salto di palo in frasca in questa storia che è la mia vita.
Adesso ricordo un incontro con gli zii e ricordo dei giovanissimi ragazzi, mio fratello e mia sorella, e poi rivedo gli zii Salvatore, Nino e Mela. Li conobbi attraverso un amico che era un tecnico della marina militare, che faceva delle riparazioni di televisori e radio ed aveva dei clienti a Castroreale. Un giorno, insieme ai miei genitori, combinammo un incontro con gli zii: era la prima volta che vedevo quei volti che mi parlavano della mia vera identità. Mi mostrarono e poi consegnarono una foto di mia madre che ancora conservo con amore. Nessuno parlò di mio padre, come fosse un tabù da tenere ben nascosto. In quell’attimo rividi come in un sogno la famiglia e il passato – stavolta non era un sogno ma la realtà inseguita per anni. Non parlammo di grossi argomenti perché ogni parola ci trascinava alle lacrime e quelle dovevamo evitare, se possibile. Ma nel contempo gli occhi non mentivano, divenivano lucidi anche senza parlare. In quella casa c’era ancora odore del passato: la credenza riposta nello stanzino non aveva parole, ma raccontava intere esistenze; in un comodino trovai un romanzo con su la scritta “Maria Russo”. Mi chiesi se quello fosse stato l’ultimo che mia madre avesse letto; c’erano tanti piccoli ricordi che non avevo vissuto eppure facevano parte di me.
Guardavo quelle mura, quelle strade che erano rimaste intatte rispetto a quando lei era ancora in vita. Finito di pranzare, chiesi a mio zio Nino quale fosse la casa di mia madre e lui mi accompagnò. Guardai tutti i minimi particolari alla ricerca di non so che cosa, catalogando tempi e luoghi in una visione del tutto nuova, ma che nello stesso tempo mi trasportava in quel passato del non ricordo. Furono momenti indimenticabili impressi nella mia mente, la quale stava costruendo quel mosaico che mai avevo visto, condividendo con lo stesso attimi scomparsi, accorgendomi che io esistevo.
Parlammo di mio fratello, che in quel momento era capitano di lungo corso e si trovava imbarcato sulla nave “Sibilla”, ma che entro qualche mese sarebbe dovuto tornare a Messina. Credetemi, non vedevo l’ora di abbracciare il sangue del mio sangue. Quel momento arrivò: lui vestito da militare era in mezzo a tanta gente, eppure dopo solo uno sguardo e un cenno ci siamo abbracciati. Questo fu il primo incontro con mio fratello, il primo pezzo dell’intarsio di una storia antica ed un passo verso un ricongiungimento, per ricomporre i pezzi di quel mosaico. Accompagnati dal prete di Castroreale, che faceva da filo conduttore in questa difficile situazione, ci mettemmo in contatto con i genitori di mia sorella: avvenne anche l’incontro con lei. A quel tempo era già diplomata in pianoforte. Giunti a casa sua, qualche lacrima naturalmente fu inevitabile. Poi le domande sorgevano da sole. Tutte le attenzioni erano per me, che ero il più piccolo di una famiglia ritrovata ma priva del sostegno di una mamma. Dopo aver bevuto insieme una bibita, rimandammo l’incontro a un pranzo da consumare in un locale di Milazzo in data da destinarsi. Mia sorella ci fece ascoltare qualcosa al pianoforte. Fu così che vidi quei volti dopo tanti anni per la prima volta; non ricordavo niente del prima: ero un esserino troppo piccolo quando il mondo si era oscurato, lasciandomi in balia delle ombre. Lasciammo nostra sorella fra quelle mura amiche che l’avevano vista crescere: ormai quella era la sua famiglia.
Approfittando della presenza di mio fratello, fummo invitati dagli zii di Castroreale a pranzo. Per me fu un avvenimento storico e insieme ai miei genitori ci avviammo verso l’abitazione degli zii. Giunto alla meta, scrutai quelle mura per leggere ancora una volta il passato. Immortalai ogni cosa alla ricerca di qualche altro ricordo. In quella casa avevo trovato qualcosa d’inspiegabile che rincorrevo da tempo: i luoghi dove affondavano i sogni e dove la realtà crudele mi consegnava gli anni ancora da vivere. Ci salutammo e fissai un appuntamento con mio fratello a Messina, a casa mia. Mi portò con lui a scorrazzare nella città peloritana. Prendemmo un gelato ed io mi sentivo un principe uscito da un fumetto, anche se non avevo il cavallo bianco. In quell’occasione mio fratello rimase soltanto un paio di giorni, perché doveva rientrare a Genova e partire per Salonicco. Ci scambiammo delle foto. Qualcuna scattata insieme. Con questi freschi momenti passati in un clima diverso dal solito, allontanai per una volta le ombre. Poi, la vita andò avanti.
Mi sentivo più protetto, non più solo, poiché avevo quel punto di riferimento che nella vita serve per comunicare i malumori, i pianti, ed anche le gioie che fanno parte del nostro esistere; anch’io potevo dire: “mio fratello”, “mia sorella” che sino a quel momento erano state solo parole pronunciate dagli altri, mentre io le potevo proferire soltanto in sogno. Parlammo poco di nostra madre; tutte le volte che incominciavo il discorso, mio fratello con il volto afflitto mi diceva: «facciamola riposare in pace.» Io capivo il suo stato d’animo: le immagini gli affioravano alla mente che conservava quei bagliori, come il negativo d’una foto, e che in ogni discorso riesumavano il vissuto della sua tenera età. Lo capivo benissimo: cercava di allontanare dal ricordo quelle immagini orribili. Il dimenticare faceva parte integrante del continuare a vivere, pur tenendo dentro un grumo che ognuno di noi ancora porta con sé. Avevo compiuto da poco quattordici anni. In una festicciola, nella contrada di Camaro, avevo adocchiato una bambina con il corpo già formato da donna e incominciai ad avere qualche batticuore. Ma si sa come vanno queste cose: nascono e muoiono nel giro di un battito di ciglia, senza farci capire in fondo il vero significato di quei sentimenti che lasciano qualche ferita che col tempo si rimargina, dedicando alla fanciulla alcuni versetti dettati da quel primo istante che come un pennacchio di fumo se ne va nei cieli infiniti senza traccia del breve incontro vissuto.
La ragazza in questione si chiamava Giusy, aveva i capelli biondi, di un biondo ossigenato, con quel fisico che richiamava le attenzioni, non soltanto le mie, ed avevo paura di perderla.
Intanto, era nata in me la passione per il ciclismo, che mi vide gareggiare sotto falso nome, perché i miei genitori non mi davano il consenso perché temevano per la mia incolumità. Vinsi diverse gare ed avevo pure degli estimatori che mi sostenevano e incoraggiavano in questo ulteriore percorso della mia vita. Mi sentivo un campione quando valicavo per primo il traguardo, inneggiando al cielo con le braccia in segno di vittoria, la fatica stampata sul volto e quel trofeo appena vinto che mi dava la carica per continuare nelle mie imprese.
Gli anni scorrevano e giunse pure il momento della cresima: per quanto lo desiderassi non ho trovato una foto che immortalava quegli istanti, ma ricordo che mia madre mi fece un vestito su misura: sembravo un personaggio uscito dal fotogramma di un film. Il mio padrino di cresima si chiamava Nino, abitava in quella via Puntale vicino a casa mia e tantissime volte mi chiamava, invitandomi a stare attento alle amicizie che coltivavo.
Per l’occasione fu allestita una tavolata con tutti i familiari e gli amici. In quel momento mi avvicinavo un po’ di più a Dio. Qualche regalo iniziava ad arricchire una bacheca ancora vuota: piccole cose che avevano un gran significato perché regalate da persone che mi volevano bene; così allontanavo quel freddo che in determinati momenti mi covava dentro e congelava anche il cuore.
Scorrono gli anni come un fiume in piena che trascina tutto nelle strade che mi hanno visto protagonista, in quelle piazze dove, attorniato da tanta gente, liberavo qualche verso riconosciuto dagli applausi che facevano emergere nei miei lineamenti qualche timido sorriso; magari recitavo alcuni versi anche in vernacolo siciliano, come “A bedda vita”, o “U travagghiu”, per porgere agli amici qualcosa che ricordasse la cultura degli avi. Tra il lavoro e il mio impegno per lo scrivere, riuscivo a comporre quei versi giovanili che accompagnavano il mio crescere, dipingendo a parole quelle strade battute velocemente verso il futuro.


Carmelo con il fratello Totuccio. Messina. Anno 1963




Capitolo 6
L’incontro con Quasimodo, Montale e Ungaretti

Una sera, arrivato a casa dal lavoro, mia madre m’informò che il prete aveva ricevuto dal direttore del collegio una telefonata, per dirmi che dovevo ritirare una lettera proveniente da Roma. Non sapevo di cosa si trattasse. Nell’intervallo di lavoro feci una capatina alla “Città del Ragazzo” dove mi accolse il capo istitutore, professor Anton Maria Vito Todaro, che aveva preso a cuore quasi tutte le storie dei ragazzi del collegio e in più amava la poesia. Con un sorriso e un abbraccio mi comunicò che ero stato selezionato per la finale ad Amburgo con la poesia “Fogli d’un libro”. Il professore Todaro contento lesse la lettera, la quale recitava testualmente che dovevo presentarmi in una sala dell’EUR a Roma, per contattare gli addetti ai lavori. Fu in quell’occasione che conobbi tre grandi della letteratura italiana e mondiale, i premi Nobel: Quasimodo, Montale e il mancato Nobel Ungaretti. Ricordo che ero seduto in prima fila quando dagli altoparlanti fu scandito il mio nome con la dicitura che mi fece venire la pelle d’oca: “dalla Sicilia Carmelo Billè”. Prontamente mi alzai e mi avviai sul palco; mi venne incontro il siciliano Salvatore Quasimodo che con una stretta di mano mi sussurrò all’orecchio in puro dialetto siciliano: «di unni sì?»
«Di Missina» risposi.
Con un profondo sospiro continuò: «mi conusci ammia? Sugnu Sabbaturi Quasimudu.»
Io in quel momento mi sentivo frastornato e non capivo che era un momento storico della mia vita; recitai la suddetta poesia con un consenso di applausi, o per abitudine, o perché la lirica era piaciuta. La commissione preposta mi diede un biglietto d’aereo per raggiungere Amburgo; il Nobel Quasimodo mi dedicò qualche parola insieme a Montale ed a Ungaretti. Ricordo Quasimodo che aggiunse: «devi essere come la goccia d’acqua al marmo, prima o poi lo perfora », dandomi un biglietto da consegnare al Rettore dell’Università, Salvatore Pugliatti, suo carissimo amico di quando trascorreva i suoi giorni a Messina. Il biglietto d’aereo era per la tratta Reggio Calabria-Roma, Roma- Amburgo, prenotato dal Ministero della Cultura dello Stato Italiano.
Ritornato a Messina, tutti volevano sapere come era andata; lo stesso Todaro venne a trovarmi a Camaro, dove mio padre gli offrì un bicchierino di amarena fatta con le sue mani.
Nel frattempo nella sala allestita all’EUR di Roma, avevo conosciuto un responsabile del circolo culturale “Trilussa”, che m’invitò ad una riunione culturale che si teneva ai Parioli presso un componente del circolo, spiegandomi che questi incontri venivano cadenzati senza un vero programma culturale, soltanto allo scopo di uno scambio di idee, anche semplicemente durante la consumazione di un caffè. Ognuno degli intervenuti aveva libera parola per dare un contributo all’iniziativa con qualche lirica oppure con un’introduzione sul tema del momento.
Io accettai, non sapendo bene come fare dal punto di vista finanziario, perché il biglietto costava all’incirca sessantamila lire, che non sapevo dove prendere; ma incoraggiato dall’ingegnere dove lavoravo, esaudii questo mio desiderio. Il progetto mi era piaciuto tanto che in un’ora o poco più da Reggio Calabria ero a Roma. Fu quella un’occasione che mi diede l’opportunità di vedere lo stretto di Messina dall’alto; la sensazione che ebbi fu di meraviglia. Credetemi, sembra un grande fiume che divide le due sponde di Sicilia e Calabria! Questo spettacolo mi affascinò tanto che attraversai lo Stretto per due volte, incamerando così anche questa nuova esperienza. Fui ai Parioli in un salotto antico della Roma bene, dove i soffitti dipinti e le pareti intagliate da un mosaico ricordavano le scenografie dei film romani. Ricordo che il discorso fu imperniato sul fenomeno giovanile, in merito al quale non avevo alcuna preparazione, ma svicolai facendo entrare delicatamente i giovani della mia terra che, alla ricerca di un lavoro, correvano tutti in Continente o all’estero, inseguendo la laurea e abbandonando quelle nostre risorse primarie che erano, ed ancora sono, l’agricoltura e la pesca. Rilevai che lo Stato su questi problemi era assente, e aggiunsi pure un mio motto che piacque al pubblico: “In Italia ci sono pochi pensatori e quei pochi fanno di tutto per non far pensare gli altri”. Queste parole furono accolte dai presenti con una manciata di applausi; poi lessi una mia lirica dal titolo: “Ricordo d’uno scolaro”. Anche questa suscitò il consenso di tutti, e mi fu chiesto se fossi siciliano. Non risposi con le parole ma solo con un gesto accompagnato da un sorriso. Lasciai parlare gli altri, facendo tesoro di quanto dicevano sui giovani; qualcuno dei presenti annuiva, disse che bisognava fare come in  Inghilterra: creare dei college che preparino i giovani, rendendoli autosufficienti nel mondo del lavoro. Questa fu un’esperienza che, aggiunta a quella della mia vita passata, arricchì il mio povero bagaglio culturale. Feci ritorno nella mia città e, puntuale, il lunedì seguente ero sul posto di lavoro; l’ingegnere mi chiese com’era andata. Raccontai per sommi capi quanto avevo vissuto e riprendemmo il lavoro dopo una sua frase che mi colpì: «tu a Messina sei sprecato.»
La mia seconda partenza mi portò nelle vicinanze di Porta Pia, presso l’abitazione di un professore dell’Università “La Sapienza” di Roma. Tra un caffè e l’altro si parlò del Nobel Eugenio Montale ed esattamente della raccolta “Ossi di seppia”. Anche questa volta superai la prova. Nel mio intervento dicevo che lo scrivere può essere dettato dalla conoscenza culturale oppure da un’analisi dettagliata dei passaggi della vita, esaminati ed espressi in due modi diversi: i primi vengono descritti puntualmente nel loro evolversi, mentre i secondi, dettati dall’animo, correggono il senso del fine, portando a quelle analisi che conducono all’asse portante di ogni esperienza di vita, di cui si deve accettare il corso senza appelli, proprio come un film che scorre più volte senza poterne correggere la trama o cambiarne la sequenza, cosa che indispone, facendo arrabbiare. Lessi una lirica in dialetto siciliano dal titolo “A bedda vita” che puntualmente dovetti tradurre per i presenti che non capivano le parole. Durante il mio ultimo salotto di Roma dissi scherzosamente: «se fosse stata Rometta avrei continuato il salotto, ma siccome è Roma a ben sentirci e a presto.»
Mentre si avvicinava la data di Amburgo, mi resi conto che avevo già diciannove anni, e di lì a poco ne avrei compiuto venti. Nello stesso periodo arrivò anche la cartolina precetto per il servizio militare. Nel gennaio seguente avrei dovuto presentarmi a Orvieto con destinazione il C.A.R. Tra me e me commentai: «come scorre veloce questo tempo e quant’è fugace!»




Capitolo 7
Suona per me l’inno di Mameli ad Amburgo

Arrivò il tanto atteso giorno della partenza per Amburgo; ero minorenne – a quell’epoca si diventava maggiorenni a ventuno anni – e come accompagnatore fu incaricato un funzionario della prefettura di Messina, che per l’occasione mi accompagnò per tutta la tratta Reggio Calabria-Roma, Roma-Amburgo. Durante il tragitto mi chiese più volte se fossi emozionato e se fossi contento; mi fece ripetere quella poesia più di cinquanta volte. Arrivammo a Roma, città che nel corso dei secoli aveva registrato chissà quanti turisti. Una metropoli a livello mondiale che con i suoi monumenti ricchi di storia conservava le orme del passato. A Fiumicino, dovendo attendere circa un’ora per la coincidenza, entrammo in un bar dell’aeroporto e, mentre consumavamo un cornetto e un caffè, a un tratto venne scandito il mio nome dagli altoparlanti: «Il sig. Carmelo Billè è pregato di recarsi presso l’ufficio informazioni.»
Ci guardammo in faccia io e il funzionario, che spontaneamente disse in dialetto siciliano: «Puru ccà ti conusciunu » e ci avviammo presso l’ufficio indicato. Comunicai il mio nome alla signorina addetta, che sfoggiava una minigonna da brivido – ma questo non era il momento per simili riflessioni – e che mi indicò un uomo dall’apparenza intellettuale e me lo presentò: aveva un nome straniero e in un italiano stentato disse che anche lui era diretto ad Amburgo.
Lanciai uno sguardo al mio accompagnatore, mentre facevamo le presentazioni. Proveniva da Bolzano e insieme dovevamo rappresentare l’Italia. Ci fu la stretta di mano; lui prese un bicchierino che già dall’odore mi faceva venire il voltastomaco e di lì a poco ci imbarcammo su un aereo dell’Alitalia. Al decollo vidi una scena molto bella: Roma, città storica, era sotto di noi: un incanto della natura.
In meno di un’ora fummo ad Amburgo; qua la scena cambiava radicalmente, sembrava che fossimo arrivati in un incantevole posto da fiaba: quei tetti dei palazzi aguzzi che finivano a piramide mi davano l’impressione d’essere arrivato nel paese delle meraviglie. C’era un via vai continuo di mezzi, ma per lo più erano le bici che inondavano il traffico. Un incaricato venne a prenderci sbandierando un cartello scritto in italiano: “I rappresentanti dell’Italia sono pregati di seguirmi”.
Ci presentammo al signore che aveva il cartello e in meno di mezz’ora eravamo arrivati in un grande plesso che assomigliava al tribunale di Messina. Entrammo e all’interno vidi vari saloni divisi da vetrate con tante poltrone vuote disposte come in un cinema di prima categoria, cioè in discesa, per dare la possibilità a quelli seduti dietro di vedere quanto succedeva in platea.
Eravamo giunti con un paio d’ore di anticipo rispetto all’orario ed io per l’appetito sentivo un languore che neanche mi permetteva di pensare! Nel frattempo ci chiesero le carte d’identità e le trattennero per tutta la durata della nostra permanenza, rilasciandoci in cambio un tesserino scritto in tedesco che il nostro amico, il professore di Bolzano, tradusse. Il biglietto diceva che gli italiani erano ospiti della rassegna. In quelle ore di attesa riuscimmo a mangiare un panino con qualcosa di misterioso dentro: a me sembrava che si trattasse di ceci passati misti a un hamburger, ma la fame me lo fece ingoiare tutto in un boccone. Bevemmo anche una birra. Scoprii con meraviglia che in quel luogo la birra si vendeva come da noi l’acqua minerale. Ne bevvi un poco e lasciai l’altra sul tavolino. L’altro rappresentante dell’Italia prese la mia bottiglia e la finì, facendomi capire che era un peccato lasciarla. Ci avviammo alla manifestazione; i nostri posti erano in prima fila con le varie rappresentanze europee, poi sentii la voce ovattata del presentatore che ci invitava a indossare le cuffie per la traduzione istantanea; le prendemmo e, mentre lui parlava in tedesco, una voce me lo traduceva in italiano. Che sensazione bellissima! Tutto quel parlare tedesco mi giungeva nuovo; quando arrivò il turno dell’Italia, i nostri nomi vennero scanditi in un italiano non perfetto. Salii sul palco insieme ad un professore e sentii l’inno di Mameli suonato per noi che rappresentavamo l’Italia.
Finalmente toccò a me! Una traduttrice tedesca volle sapere da quale posto dell’Italia provenissi. «Dalla Sicilia» risposi. A quelle parole il suo viso s’illuminò sussurrando a bassa voce: «Roma, Firenze, Napoli, Taormina, isole Eolie, ci sono stata. È bella Italy.» Fu un complimento che mi fece congelare il sangue, ma soprattutto fu il nostro inno nazionale ad emozionarmi, io che l’avevo solo ascoltato in un incontro di boxe e quando era stato suonato per qualche medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi! Credetemi, per un attimo percepii brividi di freddo come se la temperatura del corpo arrivasse ai quarantuno gradi. Lessi quella poesia, “Fogli d’un libro”, che avevo scritto a Messina sulla circonvallazione, mentre i relatori parlavano del fiorentino Dante come di un super uomo, descrivendo quei momenti della letteratura italiana. Lessi o recitai (non so cosa avvenne veramente in quel momento) quella lirica, che ebbe un consenso unanime di pubblico e di critica. La sala fu invasa da fotocopie tradotte in sette lingue ed ebbi i complimenti della commissione. Mi spiegarono poi che non c’era un premio e mi diedero una targa che testimoniava la mia partecipazione ad Amburgo.
Fu un momento storico del mio viaggio. Capii in quel frangente che questa era l’altra faccia della medaglia: la vita non finiva dietro l’angolo di casa e non era formata da solo dolore.
Quando ritornai nella mia città, fui chiamato dal sindaco che mi fece i complimenti innanzi alla Giunta comunale, decantando le mie qualità letterarie e aggiungendo che era fiero di me, elargendomi una medaglia al ricordo di questo incontro.
Subito dopo ripresi il mio tran tran quotidiano. Era successo tutto in un attimo, come quando il tempo sembra addormentato e d’un tratto tutto intorno a noi si risveglia. Intanto, nella città dello stretto si percepiva la necessità di confrontare la cultura di vari personaggi, formando dei salotti letterari. Fui invitato, e contento ne feci parte. Preparavo un cartaceo, sistemato in una carpetta vecchio stile, e mi avviavo in questo salotto dove leggevo alcune mie liriche e puntualmente ricevevo critiche ed elogi per il linguaggio e per il modo di porgerle. A quegli appuntamenti, che erano cadenzati il sabato o la domenica, non mancavo mai: era divenuto un rito, anzi un bisogno per sfogare attraverso gli scritti i miei drammi e cercare di allontanare le mie pene del quotidiano.
Lavoravo a quell’epoca presso uno studio legale, facendo il messo tra tribunale e l’ufficio stesso. Fu questa una esperienza unica: preparavo le arringhe per le cause in corso, oppure consegnavo le notifiche al domicilio prescritto. In questo nuovo lavoro, soprattutto conobbi alcune sfaccettature della vita che sino a quel momento non avevo conosciuto, ascoltando diversi episodi che finivano nelle aule del tribunale.
Tra i tanti ricordi in particolare uno ha lasciato un segno che ancora mi porto dietro. Un bambino nell’età dell’apprendistato, per non far gravare tutto il peso del mantenimento sulla sua famiglia numerosa, nelle ore pomeridiane faceva il barista, consegnando i caffè o le granite a domicilio, ricevendo in cambio delle mance oltre all’illusoria paghetta che gli veniva mantenuta dal gestore del locale. Nel suo viso di bambino, che a quell’età invece di giocare era stato responsabilizzato a divenire uomo prima del tempo, si vedeva la realizzazione di un traguardo raggiunto. Ma un pomeriggio maledetto il bambino fu investito da una macchina presso il palazzo del Governo, dove si erige la statua di Nettuno rivolta verso la prefettura. Si arrivò a una causa che vedeva quel bimbo sulla sedia a rotelle, mentre nel contempo l’investitore dichiarava di non averlo investito sulle strisce pedonali ma fuori dalle stesse. Mi commossi così tanto nel vedere quel bambino sulla sedia a rotelle che volli partecipare a tutte le udienze del caso. Un mattino di sole di un giorno comune, in cui il tempo si trascinava nonostante gli affanni, era stata fissata la decisione dei giudici riguardo a quell’episodio. Io ero seduto in mezzo al pubblico quando il giudice si pronunciò dicendo che l’investitore veniva assolto per insufficienza di prove. A quel punto mi alzai in piedi in mezzo ad una marea di gente, scandendo a lettere cubitali che io avevo le prove. Il giudice mi chiamò a deporre tra lo stupore dei presenti e soprattutto dell’avvocato difensore, quindi mi invitò a parlare. Io, che avevo seguito il caso in ufficio, dissi solo quattro parole: al palazzo del Governo c’era sempre una guardia, di giorno e di notte. Bastava quindi vedere data, ora, giorno e mese per avere un testimone su quanto accaduto. Il giudice annullò il verdetto, dicendo che la causa veniva aggiornata e rimandava la decisione in data da destinarsi. Il padre del bambino rimase sbigottito insieme agli avvocati, e non sapeva come ringraziarmi per quanto avevo detto; nell’udienza successiva il bambino vinse la causa con un risarcimento del danno. In seguito il padre del ragazzino investì quel denaro, facendolo fruttare. Quindi portò il bambino a Bologna per farlo operare e il piccolo riacquistò l’uso degli arti.
Per una volta un innocente aveva vinto sul dispotismo dei forti. Mi ritrovai quel ragazzino a Camaro, dietro la mia porta: voleva darmi un regalo per quello che avevo fatto. Io risposi che accettavo soltanto un caffè per non dimenticare quella che era stata per me una lezione di vita; lo abbracciai, rammentandogli che la vita è dura e che lui sembrava più grande dell’età che aveva. Lo salutai e gli augurai buona fortuna. 


Carmelo circa diciannovenne legge un proprio testo in versi davanti a quattro cultori della poesia in un circolo messinese





Capitolo 8
La naia

Mancavano pochi giorni alla mia partenza per il servizio militare, con destinazione Orvieto. Per i miei genitori fu un colpo al cuore. Non capii come mai, essendo figlio unico e adottato, dovessi fare il soldato. Forse la burocrazia non era stata informata? Partii a malincuore. Feci il giro dei parenti e mi fermai un poco di più da Graziella, che nel frattempo si era fatta una bella signorina, ed io non me ne ero mai accorto; aveva gli occhi lucidi e mi disse: «Scrivimi!» Le scrissi qualche lettera, ma non le dissi che le volevo bene, lo tenni solo per me. Forse era lei la donna della mia vita, ma le volevo bene come un fratello e fu questo il motivo che mi bloccò. Col tempo le nostre strade si divisero; oggi rammento con nostalgia quell’incontro e ho tanta rabbia per non averle detto ciò che sentivo: la mia vita a quel punto avrebbe potuto essere diversa, forse lei con quel suo abbraccio voleva dirmi tante cose, ma purtroppo aveva taciuto. Fu l’unico ricordo vero che trascinai per anni e che conservo tutt’ora, anche se il tempo è trascorso ed è rimasta dentro di me tanta tenerezza. Ricordo le lacrime dei miei genitori che mi accompagnarono sino alla stazione di Messina; non vi nascondo che provavo grande amarezza nel lasciarli soli in un momento in cui avevano tanto bisogno di me. C’era però mia cugina Concetta che dedicava parte del suo tempo agli zii, con amore. Ero più tranquillo, perché c’era lei con loro. Arrivai a Orvieto; prima di presentarmi in Caserma, volli dare uno sguardo alla località che mi ospitava e rimasi incantato dalla funivia, un mezzo di trasporto che non avevo mai visto prima. Vidi anche il Duomo, che mi ricordava tanto quello di Milano – anche se questo sembrava una miniatura rispetto a quello lombardo – poi il pozzo di San Patrizio; insomma cose che rimangono dentro, arricchendo.
Quando mi presentai in Caserma, io che ero abituato al collegio, paragonai quella vita a un semplice gioco. Mi consegnarono la divisa con un numero di matricola e per due mesi rimasi in quella località. Un giorno sentii qualcuno che mi chiamava.
«Natale, anche tu qui?» Un altro commilitone mi stava chiamando col nome col quale mi conoscevano a Camaro. Era un amico che aveva appreso dai suoi la notizia che a Orvieto c’ero pure io. Poi seguì l’incontro con altri amici di Camaro. Potete immaginare quale fu il nostro stupore nel rivederci tutti e quattro lì. Uscivamo insieme, andavamo in qualche ristorante o al cinema, insomma una vita diversa dal cerchio di solitudine nel quale mi ero preparato a trascorrere quel lasso di tempo.
Si accendevano i ricordi giovanili della nostra Camaro e cercavamo con la mente quei momenti. Dopo qualche tempo, per ognuno di noi venne l’ora del trasferimento a un indirizzo diverso. Salutammo le reclute e così finì quell’esperienza.
Trasferito alla Spaccamela di Roma, mi assegnarono al genio pionieri, reparto fotoelettrico. Finito questo corso – con tante peripezie a volte volute, altre volte erano loro a cercare me – conobbi Antonia su un autobus della città. Aveva una minigonna che faceva da cornice alle sue belle gambe che spiccavano all’occhio del militare in cerca di emozioni. Parlammo un po’ del più e del meno, poi scesi alla sua fermata per continuare il colloquio intrapreso e ci incamminammo per quel tratto di strada che conduceva al suo istituto, dandoci l’appuntamento per la fine delle lezioni. Era una studentessa proveniente da Colleferro, che dista una cinquantina di chilometri dalla capitale. Lei si trovava a Roma per motivi di studio e così trascorsi in sua compagnia tutte le domeniche, se non ero di guardia. Ma dopo venne il momento del trasferimento ad Udine, anche se nel Friuli rimasi poco. Con la specializzazione che avevo, ero sempre in giro. Un giorno mi chiamò il capitano, comunicandomi che l’indomani mattina sarei dovuto andare con gli avieri a Capo Teulada, in Sardegna, per esercitazioni e avrei dovuto illuminare i bersagli. Da premettere che il mio nominativo glielo aveva dato il mio sergente, e così l’indomani ci imbarcammo su un aereo militare che, forse, ricordava la guerra del ’15-’18 e partimmo alla volta della Sardegna. Giunti a Capo Teulada, si presentò un forte vento che probabilmente il colonnello Bernacca non aveva preventivato e ci furono dei problemi per atterrare. Il capitano degli avieri contattò il mio sergente e decisero che tutti dovevamo indossare il paracadute. Io rimasi a guardare la scena, mentre gli avieri erano contenti per il lancio, ma tra tutto quel trambusto non avevo capito che mi dovevo lanciare anch’io; il sergente era convinto che io già avessi fatto qualche lancio. «Cosa stai dicendo?» chiese.
«Io non mi sono mai lanciato in vita mia!»
«Non ti preoccupare.» Il capitano mi spiegò che, nonostante tanta resistenza da parte mia, era convinto che ne fossi capace! Questo era il fatto. «Abbiamo bisogno che tu ti lanci, altrimenti non possiamo fare i tiri.» Dopo tante spiegazioni mi convinsero ad accettare.
«Tu conta sino a cinquanta e poi tira il laccio del paracadute.» Ma, quando fui fuori dall’abitacolo dell’aereo, mi ritrovai con il corpo che precipitava velocemente in caduta libera e subito mi sentii il cuore in gola; iniziai il mio conteggio e arrivando a dieci o poco più, tirai il laccio. Il paracadute si aprì quando non doveva. Quel lancio mi portò a circa tre chilometri di distanza da Capo Teulada e vennero a prendermi con la jeep. L’atterraggio fu fantastico, anche se rocambolesco; atterrai vicino una mandria di pecore, la mia paura fu quella di imbattermi in un montone. Il capitano degli avieri mi confidò che per puro miracolo non ero stato risucchiato dall’aereo, e il responsabile era lui, finendo col dirmi: «è tutto bene quel che finisce bene, caro siciliano.»
Fatti i tiri, rientrammo ad Udine, lasciando quella terra che ricordava tanto la mia. Respirando quell’aria intrisa di salsedine e di iodio, salutai la Sardegna e con lo stesso veicolo arrivammo a Udine e meno male! Un mattino di un sabato comune, sentii agli altoparlanti dire: «il geniere Carmelo Billè è atteso in parlatorio.»
Io per la verità non aspettavo nessuno in quel luogo lontano.
Al mio cospetto vidi il padre di Antonia e la cosa mi lasciò di stucco! «Come mai si trova pure lei a Udine?» gli chiesi. «Antonia è in ospedale, è stata ricoverata con minacce d’aborto.»
Lo guardai preoccupato, senza poter dire una parola. Quando ne parlai col capitano, mi diede un permesso di quarantotto ore per raggiungere il “Bambin Gesù” di Roma. Il padre di Antonia era una persona moderna, ma era sempre suo padre!
Arrivati a Roma ci accingevamo a varcare il cancello dell’ospedale e una schiera di suore borbottò sottovoce: «ecco il militare di cui si parla.» Raggiunsi la stanza del ricovero, mi presentai al cospetto di Antonia e l’abbracciai. Lei non parlò, io nemmeno, e quel silenzio ci invase come nebbia. Antonia rimase ancora qualche giorno in ospedale, mentre io ero ospite a casa sua.
Con un certificato rilasciato dal suo medico di famiglia, dove si specificava che avevo contratto l’influenza, riuscii a rimanere qualche giorno in più a Roma. Intanto Antonia aveva già avuto l’aborto e dopo una breve degenza in ospedale la prelevammo io e suo padre, riportandola a Colleferro. Le mie quarantotto ore di permesso avevano raggiunto le novantasei, ma anche queste stavano per finire e dovevo rientrare a Udine.
Promisi che sarei passato da lì non appena avrei avuto un altro permesso e mi allontanai da lei con l’amaro in bocca. Però non avevo fatto i conti con i progetti che gli altri avevano stabilito per me. Arrivando in Caserma, il capitano, che era anche lui siciliano, dalle parti di Catania, con quel dialetto dall’accento cadenzato mi chiese come fosse andata, aggiungendo: «se fosse capitato dalle nostre parti, ci sarebbe stato il matrimonio riparatore.» Naturalmente il capitano stava scherzando, perché subito aveva mostrato i denti in un sorriso, aggiungendo pure: «questa volta ti è andata bene ma stai attento che non ci sia una seconda volta.»
Il 4 novembre del 1966 ero a Padova per la mostra dell’elettronica ed anche qua ci fu un altro colpo di scena! Mentre ero insieme ai miei commilitoni in un cinema della città a guardare un film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, tanto per essere vicino alla mia Sicilia e al mio dialetto, tutto venne interrotto da un allarme generale, accompagnato dal suono delle sirene e delle campane. In sala, dove veniva proiettato il film, si accesero le luci e da un altoparlante annunciarono: «tutti i militari presenti si devono presentare in prefettura per comunicazioni urgenti.»
Ci guardammo attorno sbigottiti, pensando subito che eravamo entrati in guerra, senza sapere né con chi né come; intanto, delle jeep raccoglievano tutti i militari incontrati per strada e li portavano direttamente in prefettura, nel cui grande cortile c’era ad attenderci il sindaco di Padova, che ci illustrò subito quanto era successo; di lì a poco il cortile fu pieno di militari di ogni appartenenza: marinai, avieri, alpini, polizia, vigili del fuoco, carabinieri. La voce scandita del prefetto ci informava che una forte alluvione s’era abbattuta sulla città di Firenze e nei dintorni; a quel punto dipendevamo dal prefetto stesso, che coordinava le emergenze per la protezione civile e, quindi, smistava i vari corpi di appartenenza per aiutare le località alluvionate. Io ero il più anziano del Genio Pionieri presente e mi diedero un grado di emergenza, quindi fui mandato subito nelle località del Bellunese verso Caorle, San Donà di Piave, Musile di Piave, Amaro. Partiti alla volta delle località citate, fummo fermati dalla polizia stradale; io scesi con il lascia-passare, ma il poliziotto mi fece notare che la località di Caorle era irraggiungibile, non si vedeva più la strada, perché era inondata da acqua e fango.
Io, che dovevo arrivarci a tutti i costi, mentre i poliziotti guardavano la scena, salii sul cofano del camion con gli occhi puntati ai pali dell’illuminazione e, tenendomi ai tergicristalli, con il capo feci cenno di avanzare piano piano: naturalmente altri camion con le fotoelettriche seguirono a ruota.
Quando giungemmo sull’altra riva, sentii scandire dalla voce del poliziotto: «di dove sei?» «Della Sicilia» risposi.
Lui ribatté: «solo un siciliano poteva passare.»
Ci salutò, augurandoci buona fortuna.
In quelle zone trovai tanta acqua e tanto di quel fango che non avevo mai visto in tutta la mia vita. Ero insieme all’inseparabile amico Mario, col quale avevo condiviso diverse avventure, vestendo quella divisa che ci qualificava salvatori della Patria, dando un contributo con questi primi soccorsi agli alluvionati di quei paesi. Sul luogo del disastro era presente il Ministro della Difesa, Tremelloni; una sera questi ci trovò al lavoro con le nostre fotoelettriche, pieni di fango e di acqua, e ci diede cinquantamila lire. Sinceramente io non avevo nemmeno capito che fosse il Ministro della Difesa ma, quando vidi che tutti erano scattati sugli attenti dicendo: «comandi, signor Ministro!» rimasi di stucco e mi comportai di conseguenza. Subito dopo, con la divisa inzuppata di acqua e di fango, lavata e asciugata alle fotoelettriche, partimmo alla volta di Firenze che, a prima vista, sembrava Venezia. In alcuni punti il livello dell’acqua superava il secondo piano e dovevamo muoverci con le zattere o con le barche. Ero arrivato a Firenze un giorno dopo l’alluvione e vi rimasi più di un mese. In quel periodo potei apprezzare la simpatia di questa gente operosa, mentre si passavano i sacchi di terra l’un l’altro per impedire all’Arno di traboccare verso la città, oppure per salvare un dipinto, o riunirsi dove l’acqua non era arrivata, per costituire il quartiere generale da dove partivano le istruzioni per poi arrivare nei posti dove c’era bisogno d’aiuto. È stata un’esperienza unica! L’allora Ministro della Difesa Tremelloni intestò a noi e a tutte le forze italiane un diploma di ringraziamento per quanto avevamo fatto a difesa del nostro territorio, colpito dall’alluvione di quel 4 novembre del 1966. Non potrò dimenticare un episodio. Mentre stavamo lasciando Firenze, vidi una donna disperata e in lacrime.
Prima di salire sul camion, chiesi all’autista di aspettare un attimo e mi avvicinai a lei. «Cosa le è successo?» chiesi, scrutando la sua angoscia. Balbettando in quel dialetto fiorentino e con un nodo in
gola, riuscì a dirmi che non trovava più sua figlia. Io, che in quell’occasione ero il più anziano dei militari, quindi capo colonna, invitai tutti i miei compagni a scendere per cercare la bambina. Qualche attimo dopo, durante le ricerche, da lontano, sotto la ruota di un camion notai qualcosa, mi avvicinai e vidi quel corpicino arrotolato su se stesso e tutto pieno di fango. Per un attimo temetti il peggio, poi il suo respiro mi rassicurò e mi accorsi che dormiva. La notizia del ritrovamento fece subito eco. Presi in braccio quella bambina e la portai da sua madre la quale l’abbracciò, stringendola al petto, esclamando: «Sei la mia bambina!» La signora ci ringraziò. Le strinsi la mano e diedi un bacio alla piccola che poteva avere non più di tre anni. Eravamo sul punto di partire, quando la signora mi domandò: «da dove vieni?» «Dalla Sicilia» le risposi, sporgendomi dal finestrino.
«Grazie» gridò lei e aggiunse: «Giorgio La Pira, Giorgio La Pira!»
Io non capivo il senso di quel nome, poi seppi dal mio capitano che era il leggendario sindaco di Firenze, stimato e amato dai fiorentini e che era un siciliano come me.



Firenze durante l’alluvione del 1966.  Carmelo partecipa ai soccorsi

L’avventura militare stava giungendo al termine. Ero prossimo al congedo. Una mattina mi giunse un telegramma con scritto “Giusy è fuggita con un altro”, parole fredde che dicevano tutto. Intanto, avevo promesso ad Antonia che sarei passato da Colleferro. Avevo già il congedo in mano, preparai il mio bagaglio e, come da calendario, feci sosta nella Ciociaria, dove rimasi per tre giorni ospite della sua famiglia. Poi ripartii alla volta di Messina, dove mi aspettavano i miei genitori e la mia sicilianità mi richiamava.
Mi riapparivano davanti agli occhi gli stessi luoghi che nel frattempo avevo lasciato insieme all’età dei giochi: una terra che ha tanta fame di lavoro, in cui i giovani spesso bruciano i loro sogni ancor prima di averli formulati. Un lavoro certo, ma come meta finale la creazione d’una famiglia, che non può vivere di sogni ma di risposte reali in quel contesto sociale. Quel passo a volte viene fatto troppo in fretta, non avendo la possibilità di programmarlo, perché si è ancora privi di esperienza, anche se le raccomandazioni di chi ci sta accanto non mancano.
Probabilmente questo dato di fatto bisogna capirlo da soli, per evitare che i colori dell’arcobaleno perdano effetto cromatico e, per chi come me ha rincorso ombre, a guardarlo non vi trovi più un senso. Forse ho costruito troppi castelli di sabbia che si sono disfatti nel tempo, lasciando dietro solo rovine che fanno nascere rabbia e sgomento, ma mai resa.
Rimangono negli occhi immagini sfocate, anche se sono le stesse dell’infanzia: ricordano un fazzoletto che sventola dalla carrozza d’un treno, come segno di saluto, accompagnato da una lacrima di scoramento per gli affetti lasciati in quella terra, per andare a cercare un lavoro in un’altra città, senza mai cancellare dalla mente quelle origini che ti hanno accompagnato nel vivere di stenti, ma con il capo sempre alto...
Quei momenti duri che si registrano nel nostro meridione sono forse causati dalla posizione geografica del nostro territorio, e fanno sì che i giovani arrivino a quarant’anni, senza avere un posto di lavoro. Figuratevi se potranno percepire la pensione quando saranno arrivati all’età del pensionamento, dal momento che non lavorarono. Lo scorrere del tempo continua la sua marcia, senza arrestarsi mai, registrando altresì la lotta continua per sopravvivere in una dimensione umana che porta dietro le immagini a testimoniare aspetti e momenti inclusi nella dura storia di vita.

 Carmelo in divisa militare, 1966

Carmelo, in branda, mostra il simbolo dei congedanti, 1967





Capitolo 9
L’ardore della giovinezza


Tornato in Sicilia, notai che tutto era rimasto intatto proprio come l’avevo lasciato, ma tra i ricordi del passato c’era il presente a pungolarmi e a volte mi sentivo desolato per non poter realizzare i miei vecchi progetti. Ricominciai a lavorare, anzi presi pure qualche lavoro per conto mio, inoltrandomi dentro il misterioso viaggio della vita che riserva sempre sorprese.
Avevo poco più di venti anni con il bisogno di cominciare a pensare seriamente al mio domani, mentre i sentimenti vagavano come una barca alla deriva, senza pensare che quei momenti sarebbero sfumati, lasciando solo l’alone di un ricordo.
Avevo lasciato a Roma un pezzetto di cuore e qualche simpatia locale, mai però avevo pensato a un legame serio: era stato tutto un fuoco di paglia che col tempo sarebbe svanito all’orizzonte. Dovevo cancellare ogni cosa con un colpo di spugna: avevo bisogno di risolvere i tanti problemi presenti e quelli che avrei incontrato lungo il cammino. Scrissi ad Antonia una lettera, nella quale la informavo che la mia situazione familiare non mi permetteva più di allontanarmi da casa. Lei nelle successive lettere insisteva perché io tornassi a Roma, mi trovassi un lavoro, mentre lei raggiungeva quel sospirato diploma di ragioniera, ma rifiutai la sua proposta e dopo tante lettere finì quell’intermezzo amoroso. Le nostre strade si divisero, lasciandomi solo un ricordo simile a un’eco che ogni tanto mi distoglieva dalla realtà.
I miei genitori stavano invecchiando e gli anni si vedevano tutti, mancava in loro la lucidità del passato. Io cercavo di aiutarli come potevo: preparavo da mangiare, spazzavo per terra, rifacevo i letti.
C’era bisogno di una donna in casa e mia cugina Concetta li aiutava per quanto era possibile. Dopo la mia breve sortita a Roma fui sommerso da tanti concorsi di poesia nazionali e internazionali; partecipai timidamente a qualcuno, anche perché non credevo fino in fondo nei concorsi.
Nel 1967 mi giunse un invito dalla casa editrice “Mondo Letterario” di Milano, che mi annunciava l’uscita entro breve tempo di un’enciclopedia nazionale di poeti contemporanei.
Io non mi ero mai sentito un poeta; avevo scritto qualcosa perché mi mancava qualcuno che ascoltasse le mie parole e, piuttosto che dialogare da solo come fanno i pazzi, avevo preferito imbrattare il foglio bianco con quei versi che per me erano una sorta di liberazione e un vero senso di comunicazione, restando fiducioso che qualcuno prima o poi li avrebbe letti.
Trascorsero cinque mesi e il mio nome comparve su quell’antologia intitolata “Lumen”; andai a Milano alla  presentazione del libro e in quell’occasione fui uno dei più giovani autori, con quindici poesie ed una premessa. I convenuti in sala decisero unanimemente di applaudirmi in piedi. Penso che quello che li spinse a questo gesto bellissimo, che mi fece ancora una volta commuovere, fu la premessa del libro che sensibilizzò l’intera platea. Ero guardato con un occhio diverso, forse perché venivo dal sud. Tanti uomini illustri venivano da quel sud martoriato che dava luce alle chiare idee, le quali hanno contribuito molto alla letteratura nazionale e internazionale, con uomini che hanno tracciato le basi culturali.
In quegli anni preferivo continuare a dialogare col silenzio nel quale m’immergevo e scoprivo che le ombre del passato facevano ancora parte del mio esistere; quelle stesse ombre che ancora adesso rivedo pronte ad inseguirmi. Intanto, in quel passato non tanto lontano, durante il periodo militare, avevo lasciato qualche amico. Uno di essi si chiamava Mario, al quale avevo promesso un libro, anche perché c’era inserita una lirica dedicata a lui. Dopo qualche mese mi arrivò una lettera da Castellazzo Bormida, in provincia Alessandria. In quella lettera, il mio vecchio amico mi ringraziava ma aveva anche una richiesta da farmi. Una sua nipote, che stava preparandosi per la laurea in Lettere moderne, desiderava inserirmi nella sua tesi. La ragazza abitava a Viterbo e sarei stato contattato per partecipare all’evento. Era l’anno 1968. Arrivato quel giorno, ci incontrammo alla stazione ferroviaria: tutti guardavano per scorgere questo poeta siciliano, magari immaginandolo col bastone e la coppola e, come ultimo tocco, una barba bianca. Mi venne incontro Mario, il quale fece le presentazioni di rito e, dopo un caffè offertomi nel bar della stazione, ci avviammo presso l’Ateneo di quella città che non avevo mai visto. Giunti alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dove mi avevano preservato un posto insieme ai docenti universitari, i laureandi venivano in modo composto a salutarmi e a stringermi la mano. La cosa che m’incuriosì fu che quel posto non mi competeva. Ero tra ragazze che in quel momento sentivano tutto il peso dello studio che le aveva portate a quel traguardo agognato della laurea e, quindi, non era un sogno, infatti di lì a qualche ora avrebbero avuto il riconoscimento dei loro sacrifici: non più laureandi ma dottori nel ramo umanistico.
Una di loro si avvicinò borbottando: «posso toccarla?» Risposi con un mezzo sorriso: «toccami!» Mi confessò che non aveva mai toccato un poeta vivente. La nipote del mio amico Mario, in chiusura della sua tesi di laurea, parlò di me. Continuò col dire d’essere stata in Sicilia, nel paese dove sono nato, percorrendo i luoghi cadenzati da quel lontano 1946, soffermandosi nei posti più bui del mio movimentato percorso: brefotrofio, collegio, famiglia adottiva...
Guardai quella ragazza, chiedendomi come potesse sapere più di quanto sapessi io. La ragazza fu applaudita: si era meritata un centodieci e lode! Era la prima volta che assistevo a una laurea e neppure mi rendevo conto come ci fossi entrato pure io. Il presidente della commissione m’invitò, se volevo, a recitare una mia poesia e a porre qualche domanda alla ragazza che mi aveva invitato alla sua giornata di festa, che avrebbe ricordato per tutta la vita. In quell’occasione recitai “Ricordo d’uno scolaro”. La stessa poesia che lei aveva commentato parlando di me. La considerazione che mi venne spontanea fu quella di invitarla a trasmettere la sua conoscenza letteraria agli altri, per continuare a diffondere il sapere da qualsiasi parte esso provenga.
Nel frattempo, la situazione in casa mia non era certo delle migliori; mia madre rimase a letto per più di un mese e intorno a me regnava il buio più totale. Dovevo trovare una soluzione e una donna con la quale formare una famiglia. Era proprio questo proposito che assillava i miei pensieri. Avrei dovuto fare dei progetti reali, rinunciando ai sogni, andando incontro alla realtà che non era più favola. Intanto, Giusy si era separata dal marito e questo m’indusse a cercarla nuovamente.
Il marito era un mio amico d’infanzia ed un compagno di scuola, ma negli ultimi tempi c’eravamo persi di vista. Qualcuno gli aveva detto che io m’incontravo con Giusy. Un giorno mi fermò al bar della piazza di Camaro, dicendomi con un mezzo sorriso che se avessi frequentato ancora sua moglie, mi avrebbe ucciso. Tutto si era concluso con un sorriso e un finto saluto. Nonostante fossi stato minacciato, continuai a vederla di nascosto, percependo la sensazione che stessi rubando qualcosa; i nostri incontri continuarono nelle ore notturne, quando il buio nascondeva ogni cosa. Durante uno di questi incontri, salii sul tetto di una macchina posteggiata sotto il suo balcone per arrampicarmi, quando un botto, che ci sembrò uno sparo, seguito da un’eco nel buio della notte, ci terrorizzò. “Mi ha sparato!” borbottai tra me e me nel buio, toccandomi per controllare se fossi ancora tutto intero. Non riuscivo a capire dove mi avesse colpito; solo qualche momento dopo mi resi conto che il botto era stato provocato dal tetto di quella vettura, una Millecento antica, non era stato quindi uno sparo. In quell’istante capii che anche questo momento doveva essere cancellato per sempre dai quei progetti mai realizzati.




Capitolo 10
La nascita di Giovanni, Antonio, Mariagrazia e Tiziana

Trovare una donna adatta a me, con le mie esigenze familiari, non era facile: per me era un grosso problema dover conciliare famiglia e cuore. Di sicuro non potevo andare al mercato per comprare la soluzione. Frastornato da quanto stava accadendo, rimasi in uno stato di confusione e mi affidai allo scorrere del tempo. Durante uno di quei giorni, apparentemente uguali agli altri, che apparivano privi di significato, mi recai con un amico alle isole Eolie, per vedere un lavoro a Lipari. Al ritorno ci fermammo in una bottega di generi alimentari per comprare dei panini e qualche bibita. Proprio vicino al porto di Milazzo vidi una ragazza e, come mia abitudine, feci qualche battuta che lasciò il segno; era l’anno 1968 e quel panino con la mortadella fu testimone della nostra conoscenza.
La ragazza si chiamava Angela: una bellezza che subito mi aveva attratto e mi aveva indotto a cambiare programma. Non avendo un mio mezzo di trasporto, per quasi tre mesi feci il pendolare da Messina a Milazzo, poi feci la “fuitina” e portai Angela a Camaro. Da qui ritornammo a Milazzo. Costruire una vita e allacciarla alla esistenza passata diveniva sempre un compito molto difficile: nel mio caso i pensieri venivano maciullati dal dilemma dei diritti e dei doveri. Pensai alla solitudine, proprio a quella che divora e al suono di un lamento che rimbomba nel silenzio. La mia vita, invece, era stata sempre colmata dal bene voluto dai miei genitori, riempiendo gli spazi vuoti. Queste due figure facevano parte integrante del mio essere, ed era difficile che la mia sensibilità se ne dimenticasse. Anche il lavoro era una necessità primaria e diventava anche questo un problema da risolvere, rincorrendo il tempo che divorava le ore che, sommandole, divengono giorni e poi anni. Mi chiamarono alle “Officine Galileo di Sicilia” per un colloquio e poco dopo fui assunto; almeno un problema, che assillava la mia vita, lo avevo risolto.

Fonte: Massimo Tricamo, Storia dell’Industria a Milazzo, Milazzo, 2008




Fonte: Massimo Tricamo, Storia dell’Industria a Milazzo,
Milazzo, 2008


Rimaneva ancora il problema dei miei genitori, anche se ora la realtà aveva una faccia diversa. Sì! Avevo trovato una donna a Milazzo e avevo trovato pure un lavoro in una fabbrica che costruiva contatori elettrici per l’Enel, ma non sapevo come risolvere la situazione che si era venuta a creare. Mi assillava costantemente il pensiero dei miei genitori, che avevano fatto tanto per me e anche per questo non potevo abbandonarli. Cercavo di ritagliare del tempo per loro, per i loro bisogni, per essere accanto a loro nei momenti più difficili, così come essi avevano fatto con me, dedicando il loro tempo alla mia crescita ed estasiandosi anche soltanto al vedermi. Come queste due figure che erano state per me un punto di riferimento, così anch’io avrei dovuto comportarmi nei loro confronti e continuare il corso intrapreso. Spesso una nostra vicina, la signora Raffa, e sua figlia Graziella li accudivano. Quando mio padre rimase solo e non mi era possibile farlo io, erano loro che lo imboccavano e lo curavano. Sarò sempre grato per questo. Dovevo affrontare il mondo, non più da solo ma in coppia. Il 15 aprile del 1970 nacque un bimbo dagli occhi azzurri e con i capelli biondi: sembrava uno di quei bambini scelti per le pubblicità che tante volte vediamo sullo schermo di un televisore. Fu così che saggiai la prima emozione d’essere padre, rincorrendo nella mente il passato di quando ero figlio. Lo chiamammo Giovanni. A questo punto mi ero accasato, avevo la mia famigliola, avevo la mia dimora, non eravamo più in due ma in tre. Col mio primo stipendio, facendomi
coraggio, mi recai da un mobiliere: avevo bisogno di suppellettili per la mia nuova casa. Per la prima volta firmai delle cambiali, con scadenza mensile, assumendomi delle responsabilità verso la mia famiglia; ormai non vivevo più di sogni, ma in quella nuova realtà. Avevo raggiunto una mia dimensione nel tessuto sociale: ero sposato e avevo un bambino, ma i miei genitori erano più soli di prima; così continuai a fare il pendolare, portando da mangiare e tenendo loro un poco di compagnia. Qualcuno del posto era sempre vicino a loro, ma mi addolorava non essere io quel qualcuno.
Intanto mi dedicavo anche al teatro e nel 1971, precisamente durante il carnevale di quell’anno, interpretai una parte in un lavoro teatrale scritto dal prof. Filippo Russo, “Giulietta e Romeo in Sicilia”: Una parodia giocosa della celebre tragedia. Tale rappresentazione fu portata in scena a San Papino. Con passione ed entusiasmo partecipai a quell’evento. Era stato un gruppo di ragazzi a mettere su uno spettacolo che diventava anche momento di incontro. Io mi adoperai per l’illuminazione e recitai mettendoci come sempre l’anima.

Carmelo recita una parte della parodia giocosa “Giulietta e Romeo in Sicilia” tratta dalla tragedia di W. Shakespeare dal prof. Filippo Russo. Gruppo Teatrale ’71 presso la chiesa di “S. Papino”, Milazzo, 1971


Carmelo in una scena di teatro. Milazzo, anno 1971

Non trascorse molto tempo e divenni nuovamente padre.
Era l’8 ottobre del 1971 quando nacque Antonio. Il nuovo arrivato era di una bellezza diversa: i capelli erano neri ma gli occhi di quel grigio-verde che sembravano perle trovate in un’ostrica.
La vita mi si presentava sempre più in salita. Alle “Officine Galileo di Sicllia” si preannunziavano scioperi; io venni eletto nel Consiglio di fabbrica prima e nel Direttivo Provinciale della Fiom poi. Lo stipendio calava per l’effetto degli scioperi, per le rivendicazioni nazionali di contratto e per gli accordi aziendali. Malgrado tutto, riuscivamo ad andare avanti, integrando con qualche spicciolo ricavato da lavori extra. Le scadenze delle cambiali purtroppo ci riportavano ogni volta sotto zero, e la risalita diveniva sempre più difficile. Cortei e scioperi contraddistinsero quei momenti della nostra esistenza, che divenne a mano a mano più faticosa, ma proseguimmo ugualmente.
Poi, di notte, quando tutto tace, ci si accosta alla realtà del vivere, a quella realtà che cammina di pari passo con noi, incapace di staccarsi dalla nostra ombra. In queste notti il quadro appare nitido, ma con il pensiero si fugge lontano, confondendo il presente col passato, dando il via a momenti di puro sconforto, perché il pensiero si perde invaso da domande su ogni cosa, spaziando dal mare al cielo, all’universo, a tutto insomma, anche al tratto da scalare, alla vita da affrontare, il giorno, la notte, la perfezione d’un tracciato sconosciuto o una parte di esso.
La mente umana ha sempre lavorato per dare delle risposte più profonde riguardanti questo immenso tesoro che è l’universo, partendo dallo stesso io sino alla più piccola cellula che ci circonda. A volte rimango scontento del mio modo di esprimermi, anche perché mi manca in parte l’istruzione, essendo un autodidatta. A suo tempo preferii lavorare, prigioniero dei tanti problemi presentatimi da questa società poco organizzata. Lo Stato, senza tenere conto che, come prevede la Costituzione, è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, abbandona il singolo all’arte d’arrangiarsi. Così, il presente e il futuro per i figli saranno ancor più confusi e traballanti. In questo grande teatro che è la mia Nazione, si assiste al cambio degli attori con i registi, i cameraman e i produttori – che sono sempre gli stessi – ma si scambiano tra loro i ruoli dal comico al drammatico, dal buffo al grottesco, con un giro di miliardi che volano a bassa quota, mentre la gente muore di fame. Purtroppo questa è la realtà dell’Italia mia.
Chi vive in quest’epoca non può fare a meno di constatare l’amara verità che stiamo vivendo. Quando fisso lo sguardo sui miei angioletti che dormono beati, ripenso ancora una volta al mio popolo dormiente e vorrei essere per un istante il Creatore, per ridare vita alle cose e agli uomini e starmene contento a contemplare. Sin dall’infanzia riuscii a comunicare con i versi e sfogavo la mia rabbia e la mia solitudine scrivendo quello che provavo, nello sconforto e nell’abbandono. Quante volte cercai nel silenzio la pace! In quegli anni dell’adolescenza ero attorniato dagli affetti che, pur volendo, non si possono comprare.
Ora soltanto, attorniato dalla famiglia, che ho costruito da poco, riesco a valutare quel passato, che oggi ricordo da padre.
Da quell’8 ottobre del 1971, data di nascita di Antonio, passarono altri due anni ed ancora un lieto evento: nasce Mariagrazia, il 15 febbraio del 1973. Anche lei tutta suo padre: bella e bionda, di un biondo come il pennacchio del granturco e gli occhi dell’azzurro cielo. Da quattro arriviamo a cinque! Quest’altro fiore all’occhiello segna la mia esistenza, facendomi ricordare il vissuto da solo, mentre ora attorniato da questi piccoli pargoli mi sento sempre più realizzato.
Certo erano cambiate molte cose: da quel figlio unico che ero mi ritrovai con tante bocche da sfamare, in un contesto sociale che non permetteva di fare programmi. Il 12 giugno del 1975 ancora una volta si gridò al fiocchetto rosa: nacque Tiziana, un’altra bella bambina, dal visino tondo, con gli stessi colori chiari di Mariagrazia. Alla gioia per la sua nascita si aggiunse, però, il pensiero di come fare per andare avanti. A volte un crepuscolo era solo la visione che spronava a proseguire per affrontare l’alba del giorno dopo. Certo, lo svegliarsi un mattino avendo dimenticato il passato sarebbe stato come torturare un uomo già morto, cancellargli le sensazioni o le piccole particelle che hanno contribuito alla nascita di quello che è oggi. Diventa amaro anche solo il pensare, gli occhi colmi di lacrime maciullano la mente.
Trasportando l’istante, rivivo attimi belli ma turbati, visibili nel viso rigato che neanche il sole riesce ad asciugare. Il mancato sorriso di ieri emerge nell’oggi. Pertanto, non sono distratto dalle apparenze profuse ma attento a chi porge la mano nel dirupo presente. Interminabili attimi rincorrono la vita che galoppa, senza fermarsi, con qualche sorriso nel guardare i miei figli, dimenticando per un attimo il sofferto, con dentro il bagaglio della mia solitudine. Incomincio a lasciare la mia infanzia troppo travagliata con le visioni che non si addicevano alla vista d’un bambino. Con questa realtà, cercai di dimenticare in fretta quel passaggio che, aveva ostruito il cammino in quello spazio di tempo. Adoravo i miei bambini e, quando sentivo un pianto, mi avvicinavo, scrutando il respiro d’ognuno di loro, entrando dentro quel sonno, mentre programmavo il loro domani. Il crescere diviene un momento difficile, c’è da impazzire! Ora l’uno ora l’altro: la febbre, i denti, il pediatra, l’influenza, le notti bianche. Tutto ciò fa parte di una realtà precisa e intanto rincorro gli anni che vanno via, o in quel corridoio o masticando una sigaretta dietro l’altra, scrutando da vicino quei notturni momenti, quando non sai che fare e divieni inerte, pur essendo il padre. Non ho mai avuto preferenze tra loro, per me erano e sono tutti uguali.
Tutti insieme abbiamo scalato quel muro della vita, dando un comune denominatore a ciò che rincorrevamo, per dare maggior forza a quei principi innati nel nostro nucleo familiare. Se c’era da piangere, piangevamo tutti. Se c’era da sorridere, lo facevamo insieme.



Capitolo 11
I miei figli illuminano ogni mio passo

Era bello vederli rincorrersi tra le stanze: chi piangeva, chi cantava e chi si aggrappava fortemente a me per non farsi raggiungere, o si nascondeva sotto il letto, indicandomi di fare silenzio e di non dirlo. Era proprio questa la vita che prendeva forma. Ricordo quando Giovanni entrò in prima elementare. Quanto pianse Antonio non potendo giocare con lui! Nessuno di loro andava all’asilo, perché l’avevamo già in casa. Poi anche Antonio entrò a scuola e la casa incominciò a svuotarsi per mezza giornata.
Ognuno aveva il suo spazio, coltivando all’interno i giochi preferiti, trasformando le stanze ora in stazione ferroviaria con i trenini elettrici che scorrazzavano su quei binari che sembravano veri; poi era la volta delle femminucce che facevano il bagnetto alle Barbie, diffondendo la schiuma per la casa, mettendola a soqquadro. Ciò rientrava nella normalità di quegli anni. C’era il caos ma, quando qualcuno di loro stava male, in casa c’era un silenzio che parlava da solo e la tristezza e lo scoramento erano visibili. Volevo essere presente anche a scuola e feci parte dei vari consigli di classe: tutto questo per anni.
Tra i tanti punti da risolvere c’erano quello dello zaino pesante e quello dei banchi troppo bassi, tanto da temere la scoliosi. Interpellammo il Comune e richiedemmo e ottenemmo delle visite specialistiche, dall’ortopedico all’oculista, all’otorino e infine allo psicologo, per risolvere qualche problema presente tra i bambini.
Mentre Mariagrazia andava volentieri e non vedeva l’ora che venisse il mattino, a Tiziana era venuta una sorta di malinconia e piangeva al pensiero di rimanere sola a scuola. Ciò ci costrinse a sederci a turno accanto a lei nel banco, per avere il conforto della nostra presenza, e questo durò per qualche mese, poi pian piano si integrò pure lei. Venne il momento della prima comunione, sempre in quella chiesa dove era stato somministrato il santo battesimo. Credetemi, li guardavo con quegli occhi lucidi che dicevano tante cose. Iniziò Giovanni e di seguito Antonio, Mariagrazia e Tiziana. Questa immagine immortalata nella mente mi fece capire che i miei angioletti stavano crescendo con tanti sacrifici, contornati dall’affetto di questa famiglia che mi faceva sentire ancora più utile ed uomo; mi soffermavo un attimo guardandoli ed ero contento per loro. Lo scorrere degli anni li vedeva avanzare in quel cammino scolastico che piano piano prendeva forma: da scolaretti divenivano studenti in quel contesto sociale. Era di rito che, dopo i compiti, i maschietti scendessero in cortile per farsi le partitelle di calcio con i loro coetanei, mentre io li seguivo dal balcone di quella via Col F. Bertè. La nostra casa era ubicata vicino la chiesa del Sacro Cuore, dove c’era padre Cutropia, un grande amatore del calcio, e sia Giovanni che Antonio si integrarono all’interno di quella squadra – Giovanni nel ruolo di terzino mentre Antonio in quello di portiere – e gli appuntamenti sportivi non mancavano.
In questo periodo anche i miei impegni non diminuirono. Insieme ad altri padri eravamo sempre impegnati a trasportarli con la macchina, ora in un campo, ora in un altro, per quelle partite che difendevano i colori sociali del gruppo sportivo del “Sacro Cuore”. I ragazzi erano entusiasti, non solo del calcio ma anche della scuola, dove ottenevano buoni risultati.
Mariagrazia e Tiziana, invece, rimanevano in casa per aiutare la mamma a mettere in ordine e a pulire, o uscivano per andare alla bottega della nonna. Finite le scuole elementari, si accingevano a valicare il cancello delle medie: uno dopo l’altro e tutti nella sezione F. In quel periodo fui eletto nei vari consigli di classe e poi presidente del consiglio d’istituto. Mi dedicai con tanto amore a quel compito, per risolvere qualche problema all’interno della scuola. Ci furono riunioni a fiume con gli insegnanti per deliberare le gite d’istruzione. Per la prima volta in Sicilia si parlò di una palestra all’interno della scuola e della necessità di installare un bagno adeguato per i portatori di handicap; si presero anche in esame tante altre esigenze degli studenti e per questo c’era bisogno di una presenza continua dei rappresentanti dei genitori. Mi dedicai oltre al sindacato anche alla politica, tenendo qualche comizio in piano Baele a Milazzo. In quell’occasione rimasi stupito di quanta gente c’era in piazza, tanto che chiesi al segretario del partito di appartenenza, l’allora Partito Socialista Italiano, se quella gente fosse venuta per ascoltare me. Il segretario, che era l’ing. Nino Nastasi, mi comunicò che dopo di me doveva parlare il mitico oratore Giorgio Almirante.
Mentre scendevo gli scalini del palchetto, Almirante mi strinse la mano, dicendomi: «complimenti per la dialettica espressa nel suo comizio.» Questo riconoscimento mi fece piacere. La mia vita era impegnata e piena tra il lavoro e il ruolo di padre. L’azienda dove lavoravo, nel frattempo, cambiava continuamente gestione: da “Officine Galileo di Sicilia” passò prima alla Montedison, poi alla Aeg Telefunken ed infine alla Schamberger. Questi passaggi videro gli operai sempre in lotta per difendere quel salario che era l’unica risorsa economica per le famiglie. Ci furono vari incontri all’Associazione industriale di Messina e a Milano con la consorella Cogeco. Siccome facevo parte del consiglio di fabbrica, dovevo andare a Milano per un incontro congiunto all’Asso lombarda, ma prima di partire ebbi un incidente all’ingresso della Mediterranea: rimasi in coma per tre giorni, disertando l’incontro previsto. Mi svegliai poi al Policlinico di Messina, senza ricordare quanto era successo. Ricordo solo che, quando mi svegliai, stringevo la mano di mia figlia Mariagrazia. Sembrava tutto brillantemente superato, ma quell’incidente imprevisto aveva riportato alla luce le crisi che si erano scatenate anni prima: un primo attacco epilettico, avvenuto mentre parlavo all’assemblea nei locali della Galileo, fu seguito non molto tempo dopo da un ulteriore attacco che mi vide prigioniero nel bagno della mia abitazione; si dovette quindi sfondare la porta per darmi soccorso e fui costretto a ricorrere alle cure dell’ospedale di Milazzo. Quell’incidente aveva risvegliato il male antico. La situazione si era fatta alquanto seria, dovevo prendere delle decisioni in merito e contattai il prof. Simone Rigotti da Padova, uno specialista in neurologia. Presi un appuntamento; nonostante fosse per me un grosso problema arrivare a Padova da solo, mi feci coraggio: sotto la maglietta misi un cartello con il numero telefonico e l’indirizzo di casa e partii per questa avventura. Riuscii ad arrivare nello studio del prof. che, dopo un’accurata visita, mi confermò che ero affetto da epilessia e mi consigliò di continuare la stessa cura che avevo iniziato a Messina. Infine l’insigne luminare mi indicò l’infermiera per pagargli l’onorario.
Lo interruppi dichiarando: «professore, lei ha finito? Ora la prego di sedersi, ché parlo io.» Il professore mi guardò ma non fiatò e si risedette, ascoltandomi. «Caro professore, ho fatto 1.400 km. Capisco che dalla mia Sicilia sentiamo i tamburi dei tam tam dell’Africa, ma non permettiamo a nessuno di trattarci così. Io speravo che la sua scienza medica fosse accompagnata da un conforto psicologico per chi prende il treno della speranza in modo da alleviare l’angoscia.»
Il professore mi guardò e mi chiese: «ma lei cosa pensa, di avere un tumore?» Io gli risposi: «ma lei conosce la prevenzione contro i tumori?» Mi riguardò negli occhi, strappò quella ricetta, ne scrisse
un’altra, questa volta intestata all’ospedale di Padova con la scritta a lettere cubitali “Ricovero Urgente”. Mi accompagnò alla porta con queste parole: «ci vediamo domani in ospedale.»
L’indomani mattina, puntuale, lo sentii parlare nel corridoio e chiedere: «dov’è il siciliano?» Si presentò ai piedi del mio letto, fece uscire chi c’era con lui e mi disse queste testuali parole: «mai nessuno mi aveva parlato così, grazie per questa lezione di vita.»
Mi prescrisse una TAC urgente e già l’indomani fu effettuata.
Dalla TAC risultò che tutta la corteccia cerebrale era infiammata da un grumo di sangue. Nel tempo si era formato un grumo quanto un fagiolo, e quando toccava il cervelletto mi venivano quelle crisi chiamate epilettiche. Il bravo professore mi ringraziò ancora, mi diede una cura che serviva a far riassorbire il danno e mi disse che col tempo quel grumo sarebbe regredito.
Ma la parte infiammata mi causò problemi per quasi cinque anni, scatenando ancora qualche crisi. Secondo il parere del primario di Padova, col tempo questi sarebbero scomparsi. Presi il treno di ritorno, riabbracciai la mia famiglia e continuai la vita di prima. Anche quella volta superai il traguardo. In quel periodo trovai pure conforto nello scrivere qualche poesia dedicata ai miei figli. In quei momenti mi sentivo attratto dai versi che divenivano comunicativi col mio me stesso.
Proseguì così la mia vita. Ci furono pure istanti di smarrimento, di preghiera ed altri ancora immortalati in versi che mi accompagnavano nel mondo della poesia. Descrivere il pianto diviene più facile e insieme all’anima ferita si fissano nei componimenti poetici le sensazioni, che senza volerlo trascinano anche il corpo. Il sorriso, invece, è difficile immortalarlo: lo stesso appare senza lasciare traccia come una scia che evapora, a differenza del pianto, che lascia ferite profonde che durano una vita. Provo ad accarezzare una parte del vivere, mentre l’altra è dimenticata da quel dolore che la vita si porta appresso. Questi passaggi vitali sono custoditi nel bagaglio personale fino alla morte, senza poter raggirare il sistema che t’induce a riflettere nonostante tutto. Sono padre e vorrei vivere sino a quando la lucidità mentale potrà accompagnarmi, senza chiedere a nessuno la mano per guidare i miei restanti passi.
Ognuno dei miei figli scelse un indirizzo diverso per proseguire gli studi, dando soddisfazione a se stessi prima e a noi genitori dopo. Anche in quegli istituti fui presente come rappresentante dei genitori, dedicando un poco del mio tempo per collaborare con la macchina scolastica. In una delle tante riunioni mi capitò un caso singolare, che solo il destino poteva far coincidere. Fu un incontro casuale che mi fece gocciolare qualche lacrima.
Dopo una riunione del consiglio d’istituto del liceo scientifico, il professore di filosofia – che viveva a Messina e faceva il pendolare nella tratta Messina-Milazzo e che aveva un’attenzione particolare per Giovanni – mi chiese se potevo accompagnarlo alla stazione per prendere il treno. Quando era già nell’abitacolo della mia macchina, vide un documento del brefotrofio con una firma che gli era familiare: era la firma di suo padre. Capì subito e mi chiese: «che numero di culla eri?»
Capii anch’io e risposi: «culla tre»; lui ribatté: «culla due.»
Istintivamente fermai la macchina, scendemmo e un abbraccio forte seguito dal silenzio arricchì quella parte del passato ritrovato. Poi mi raccontò che il direttore del brefotrofio lo aveva adottato, mentre io ero stato adottato dai Billè. E furono cambiati i programmi per la serata; telefonò a sua moglie e la invitò a prendere il primo treno per Milazzo, comunicandole che aveva trovato un fratello. Parlammo delle cose vissute e dello stesso destino condiviso: io raccontai la mia storia, lui si accinse a raccontarmi la sua. Passò qualche ora e ci raggiunse sua moglie; ci avviammo tutti insieme verso casa e quando Giovanni vide il professore a casa nostra, si chiese stupito: «come mai?»
Dopo aver appreso la verità, anche lui si commosse. Ordinammo una pizza e passammo la serata insieme, ricordando la stessa vita e gli stessi luoghi di un tempo che ci videro lattanti mentre adesso eravamo entrambi padri. Uno di noi era divenuto addirittura il professore del figlio dell’altro!
Un altro tassello si era aggiunto al mosaico che rappresentava la mia vita, che proseguo riflettendo solo sull’arte di essere padre e di far crescere i figli nel miglior modo possibile.





Capitolo 12
L’incontro con Giuliana

Il 12 agosto del 1989 conobbi Giuliana in un caldo torrido che, oltre a scaldare il clima, scaldava pure i cuori. Fu come nelle fiabe: “amore a prima vista”! Ma, oltre al fatto che io ero sposato con quattro figli, si aggiungeva il problema della distanza, in quanto Giuliana era pugliese. Era la sorella di Jole, la moglie di mio cugino Gino, che abitava a Genova e si trovava in vacanza a Milazzo. Un giorno, finito il mio turno di lavoro, arrivai a casa e mi venne detto che mio fratello insieme alla sua famiglia era al mar di ponente, presso “Le Cupole”. Mi precipitai subito in spiaggia, come attirato da una calamita. Li trovai tutti a prendere la tintarella d’agosto sulla riva di quel mare cristallino, dove con lo sguardo si catturano le sette sorelle, le isole Eolie, un patrimonio della natura adagiato sul mare. Mia cognata Ada mi presentò Jole – che avevo visto insieme con Gino qualche rara volta – ma, intanto, avevo adocchiato un volto a me sconosciuto che faceva parte della comitiva. «È la sorella di Jole» mi dissero. Quei momenti vennero fissati dalla mia mente, ma soprattutto fui catturato da quel visino ammaliatore che mi aveva subito colpito e col quale da quel momento feci coppia fissa, tra lo stupore di mio fratello e di tutta la compagnia.
In quel periodo facevo parte di un gruppo musicale che organizzava serate di liscio per le feste patronali in piazza; in occasione dell’estate venivano allestiti eventi del genere, per animare le sere alla frescura del crepuscolo. Ricordo che eravamo impegnati a Castroreale, Bafia, Protonotaro, Barcellona, Milazzo. Presi la palla al balzo ed invitai mio fratello con tutta la comitiva: le serate erano cadenzate l’una dietro l’altra e a mia cognata, un’amante del ballo, ciò non dispiaceva.
La prima tappa fu l’indomani a Bafia: io col microfono in mano conducevo la serata, ma gli occhi si posavano sulla creatura che avevo adocchiato e conosciuto il giorno prima al mare e che aveva suscitato un battito in più al mio cuore. Quel colpo di fulmine mi folgorò pensieri e vista, senza poter dimenticare più quell’attimo. Figuratevi che nelle presentazioni facevo la carrellata dei brani della serata e scendevo per stare vicino alla pugliese che aveva rubato, senza accorgersene, una parte del mio cuore. Forse stavo esagerando, senza rendermene conto, tanto che mia cognata mi chiamò in disparte per dirmi «ma, Carmelo, lasciala in pace, è la sorella di Jole!», pur sapendo che da qualche tempo il mio matrimonio era naufragato a causa dei nostri caratteri diversi.
Dopo queste attenzioni da parte mia, le quali divenivano ossessive, Giuliana, seguendo il suo punto di vista che riteneva il nostro legame impossibile, di lì a una settimana, decise di fuggire da Milazzo. Io, però, spinto dal richiamo di quello che avevo provato, continuai ad alimentare quel puro sentimento, pur sapendo di imboccare una via senza uscita. Questa volta sembravo più che convinto: avevo raggiunto quella capacità mentale che ci fa diventare un agnellino che cerca conforto nelle mammelle della madre, colmando il senso di fame sprigionato da madre natura. Ed io provai la stessa sensazione nel vedere il volto di quella donna, in cui subito trovai somiglianza col mio io.
Stavano per finire le ferie estive e gli appuntamenti lavorativi incalzavano, rincorrendosi. Rivoltavo la realtà da ogni angolazione, pur non sapendo come affrontarla, chiudendomi in un silenzio dove mi sentivo smarrito. Nel frattempo, però, non disdegnavo di fare qualche progetto, spiandone l’evolversi nella mia mente. Mi presentai a Lecce, nonostante tutto.
E trovai una terra bellissima che non avevo mai visto, con quel barocco che viene proposto come biglietto da visita a chi si presenta a scoprire la città, detta “la piccola Firenze del Sud”. Una volta incontrata Giuly, risultò alquanto difficile farle capire che il mio matrimonio da tempo era finito. Il fatto che mi trovassi sempre più solo non la convinceva. Il mio vivere era stato, infatti, una sorta di enigma da quando ero nato, e avevo deciso di tornarmene da mio padre a Camaro per cercare quella quiete che avevo perso. Non riuscivo a smuovere Giuly dalla convinzione che la mia condotta non era una cosa ben fatta. Alla fine Giuly sembrò convincersi della mia situazione. Cercai di rassicurarla che, naturalmente, accanto a me ci sarebbe stata solo una donna per il resto dei miei giorni. Io continuai a vedere Giuly, andando a trovarla a Lecce. Nel frattempo mi ero trasferito a casa di mio padre; stetti insieme a quel vecchierello che mi aveva dato pure qualche consiglio prima della dirittura d’arrivo e lo vedevo sereno e felice. Lavoravo a Milazzo e nel contempo facevo il pendolare da Camaro, mentre il venerdì partivo alla volta del Salento. In quei momenti di silenzio e di riflessione, ponderavo ciò che dovevo fare. Avevo trovato una serenità interiore che mi vedeva tranquillo e felice, anche se dovevo rincorrere lo sguardo dei miei figli, allungando il mio passo dietro il loro.
Nello stesso tempo, per ognuno di loro si avvicinava sempre più il traguardo del diploma o il conseguimento della maturità liceale, ciascuno nell’indirizzo intrapreso. Questi momenti gratificavano loro ed anche me. Giovanni varcava le porte della Università di Messina, nella facoltà di Filosofia; quel sogno da lui rincorso, oggi è avverato. Mentre Antonio, dopo il diploma di perito chimico, nel quale si distinse con qualche borsa di studio, si arrampicava nell’avventura della medicina. Però, quasi subito dopo l’iscrizione all’università, perse l’interesse ed iniziò il corso infermieristico, che lo vide impegnato con grande soddisfazione.
Anche lui, forse confuso ma pieno di grande volontà, s’immise nella vita lavorativa che esercitò con grande passione, trasmettendo sempre più quel lato umanitario che cercava di nascondere. Alla fine, optò per la Raffineria Mediterranea; venne mandato a Roma per un corso e continuò il suo impegno in tale attività.




Capitolo 13
Marco e Davide

Mentre lo scorrere dei giorni e dei mesi ci portava a conoscerci meglio, scoprimmo che Giuliana aspettava un bambino. Era il 1990. Non avevo grandi certezze con cui rassicurarla, soltanto il mio amore. Intanto alle Officine Galileo c’erano i preparativi per festeggiare il 25° anniversario dell’azienda. Io ero impegnato nell’allestimento della sala mensa, che doveva essere adibita a ricevere le alte personalità politiche e religiose nonché i dirigenti, gli addetti ai lavori e gli ospiti provenienti dalla Germania, quando in portineria arrivò una telefonata per comunicarmi che Giuliana era stata ricoverata urgentemente all’ospedale di Lecce.
In fretta e furia partii verso la città pugliese e nel tragitto pensavo a cosa poteva essere successo. Non avevo nessun punto di riferimento e navigavo nel buio più totale. Il cuore accelerava i battiti, mentre passavano le ore. Non vedevo l’ora di raggiungere la meta. Gli occhi si perdevano nelle immagini apparse di lì a poco, arrivando in Puglia. Ecco ancora bufere ed eclissi immesse nel cammino della mia esistenza!
Non ho mai potuto fermare il tempo. Sfogliando le immagini, che fanno da cornice a quello che capita in tali visioni, solo il ricordo del passato accompagnava il dondolare del treno, senza poter chiedere a nessuno la trama del film in oggetto. E il protagonista, senza saperlo, ero sempre io, col risultato della vita di oggi.
Ma quei sogni svanirono e divenne “subito sera”. Sembrava tutto quieto ed accettato da quello che era il cammino intrapreso nella vita di sempre, quando mi accorsi che il mio non era un vivere ma un vegetare nell’insieme confuso, divenuto “soggiorno obbligato”. Era, quindi, arrivato il momento di guardare con più attenzione il percorso dei miei passi valutando oggettivamente la somma degli anni che mi sembravano sprofondati in un abisso. Mi sentivo giovane e non inerte, ad un tempo. Ma dovevo valutare bene ogni particolare della mia nuova vita insieme a Giuliana, perché questa decisione tanto delicata avrebbe dovuto accompagnarmi per tutta la vita. Ricordo ancora quelle notti interminabili che alimentavano l’insonnia, facendomi rigirare tra le lenzuola bianche, nel tetro buio della notte, senza poter condividere con nessuno quel che sembrava disperso nel grande silenzio che mi avvolgeva; ma tutte le albe mi riportavano alla verità. Quando conobbi Giuliana, la vita cambiò tutta di un botto, sospinto e allettato dall’amore che provavo per quella figura mora, dal volto incerto ma espressivo per i mille “perché” impressi nel suo sguardo penetrante, che in me trovavano risposta immediata: raggiungere la meta del calore d’un nido! Arrivato a Lecce, ad attendermi in stazione c’erano la sorella di Giuliana con suo marito; mi comunicarono che Giuliana era nel reparto di ginecologia. Prontamente mi feci ricevere dal primario del reparto in questione, puntualizzando che quei dolori cadenzati erano dolori dovuti al parto e l’antidolorifico non serviva a nulla; forse c’era bisogno di qualche cerchiaggio, ma ormai il tempo non era più a nostro favore. Il primario mi seguì nel reparto e, constatato quanto gli avevo detto, fece portare Giuliana in sala parto, tra un via vai di anestesisti con tutti i medici messi a disposizione. Dopo un po’ sentii un pianto provenire dalla sala parto e subito mi domandarono se volevo vedere il bambino, dissi di sì e, indossati un camice verde ed una mascherina, feci il mio ingresso in sala parto. La scena fu una di quelle che ho fissato nelle mie pupille: il bambino nato a cinque mesi di gestazione era ancora con gli occhi non formati ma vivo; fecero di tutto per non farlo morire. Il suo pianto oltrepassava i miei timpani. Rimase in vita solo il tempo di battezzarlo col nome di Marco e subito prese la via dei Cieli, lasciandomi impressa nella mente la visione di quel corpicino inerte poggiato su un marmo freddo dell’ospedale di Lecce. Mi chiamò il direttore sanitario per la prassi burocratica di questi casi. Dovevo compilare alcuni moduli, firmarli e tutto si sarebbe concluso nel giro di qualche minuto; ma, quando in uno di quegli incartamenti vidi scritto che il bambino era nato morto, rifiutai di firmare. Un medico lì presente mi disse che non cambiava niente, in quanto il nascituro nato prematuro era morto e, di certo, non si poteva riportare in vita dichiarando ch’era nato vivo. Pertanto, ciò comportava che bisognava allestire la camera ardente e fare un normale funerale sino al cimitero della città di Lecce. L’indomani mattina con il carro funebre l’avremmo accompagnato per l’ultimo saluto là dove entrano i morti, lasciando andare i viventi. Passarono quelle ore in un dormiveglia di dubbi e d’incertezze che mi fecero sobbalzare tutta la notte, con pensieri strani che mi venivano in mente costruiti sulle parole che mi avevano detto il giorno prima. Un dubbio predominava sugli altri: “e se mi avessero dato una cassetta vuota?”
Allontanai questo atroce dilemma solo quando mi accorsi che in ospedale aspettavano noi per saldare la piccola bara bianca. Lasciato l’ospedale ci avviammo al cimitero, dove Giuliana aveva preso una celletta per tumularla. Quell’innocente, che non aveva avuto il tempo di vedere la luce, aveva lasciato nel cuore di sua madre un vuoto incolmabile: anche quando sembra che il tempo abbia guarito quella ferita, le ombre ritornano ad aleggiare, perché un figlio non si dimentica come un ombrello lasciato in treno.
Questa perdita aveva acceso la speranza negli altri parenti che le cose tra me e Giuliana sarebbero cambiate e, invece, hanno portato a rafforzare la nostra unione. Non sto a raccontare quello che abbiamo patito, perché fa parte di una fetta di vita già passata; ci siamo fatti forza a vicenda, sostenuti dall’amore reciproco, che dura tuttora, sempre pronti in ogni momento a sorreggere il peso del destino che ci è toccato.
Subito dopo la morte di Marco, io e Giuliana decidemmo di andare a vivere insieme. Cercavamo di completare il quadro con la nascita di un figlio. Nel 1993 nacque Davide, con pochi capelli, di un biondo come la pannocchia del granturco e gli occhi celesti che sembravano rugiada posata su un fiore d’un mattino d’estate. Le sue sembianze assomigliavano a quelle della madre.
Il bimbo attorniato dal nostro amore cresceva in bellezza e pieno di vivacità, affrontando giorno dopo giorno la vita attraverso le piccole cose, cercando di ricostruire i tratti crollati per riuscire a completare questo nostro cammino intrapreso.
Quando nacque Davide era autunno; guardavo i vetri appannati delle finestre dell’ospedale di Milazzo e pensavo a quanto Giuliana ed io, dopo la perdita del primo, saremmo stati contenti di avere un altro figlio, desiderato tantissimo ma che tardava ad arrivare. Avevamo fatto di tutto per averlo, recandoci persino a Palermo per effettuare degli accertamenti particolari; dopo qualche tempo ci accorgemmo che Giuly aveva un ritardo di quattordici giorni e risultò che era incinta! Potete, quindi, immaginare la nostra contentezza: eravamo al settimo cielo.
Nonostante la gioia provata, fu un periodo difficile: per ben sette mesi Giuly dovette restare sempre a letto per il rischio di aborto; non poteva neanche fare pulizie in casa. Successivamente, durante una passeggiata in Marina Garibaldi a Milazzo, Giuly accusò dei forti dolori e pensavamo che stesse perdendo Davide; la portai subito in ospedale e per fortuna tutto si risolse per il meglio.
Per noi, Davide è stato un miracolo del Cielo! Ero felice come non mai. Le mie premure erano le stesse che aveva Giuliana e insieme gli facevamo il bagnetto, lo facevamo mangiare; io aiutavo Giuliana perché lei non era molto esperta con i bambini, ma bastava il suo amore per noi due a risollevarmi. E poi c’erano le amiche Loredana e Carmela, la madrina di Davide, che l’aiutarono tantissimo. Davide nacque dopo otto mesi e cinque giorni di gravidanza e, siccome era nato prematuro, lo misero in incubatrice per cinque giorni, durante i quali Giuliana non lo vide. In quella stanza Davide era il più bello, il più pasciuto di tutti i bambini. Davide nacque il 5 novembre 1993. Io pregavo Dio che lo proteggesse.
Il mattino della sua nascita sembrò interminabile: ero in ansia come fosse la prima volta che il mio cuore batteva per un esserino che stava venendo alla luce grazie a me. Poi lo sentii piangere e la mia ansia si placò. Erano le 4.05 del mattino.
Quando lo vidi, fu come fissare un raggio di sole capace di bruciarti gli occhi! Io non riuscivo a non essere in pensiero; so soltanto che, dopo che venne alla luce, mi sentii meglio: il cerchio si era chiuso, l’amore verso il mio bambino mi ripagava di tutte le sofferenze patite. Nel vederlo, avrei voluto dirgli tante cose: di essere onesto e leale verso gli altri, di affrontare senza paura il suo destino, magari di aiutare qualcuno più sfortunato e di seguire questi consigli, e che a seminare nel giusto tutte le porte gli sarebbero state aperte. Avrei voluto dire a quel batuffolino, il quale se ne stava tra le mia braccia, che era stato voluto in modo consapevole e che per lui avrei varcato barriere e lottato anche contro i mulini a vento. Poi lo portammo a casa e la nostra vita si arricchì del suo chiacchiericcio, dei suoi sguardi curiosi e dei primi passi sorretto dal mio amore e da quello di Giuly.
Battezzammo Davide nella chiesa del “Sacro Cuore”, ma padre Cutropia, in cui confidavamo per il battesimo, non era presente, perché si era recato a Siracusa; così fu battezzato da un altro prete che era lì per sostituirlo. Gli fece da padrino Antonino, un mio collega, e la madrina di fazzoletto fu sua moglie, Loredana. La sua vera madrina è mia cugina, Carmela.
Passarono gli anni e iscrivemmo Davide alla scuola materna, ma lo misero in lista d’attesa e sarebbero passati mesi se non anni prima che lo chiamassero. Così fu iscritto alla scuola materna di San Filippo del Mela, gestito dalle suore. Davide era ancora piccolino quando volli accontentare la mia amata Giuliana riguardo a un desiderio che aveva fin dalla tenera età: suonare il pianoforte. Quando Daviduccio era a scuola, lei prendeva lezioni di musica, due volte a settimana, dalla maestra Rosaria. Volli accontentarla perché era il minimo che potessi fare per lei esaudire uno dei suoi sogni. Era volenterosa la mia Giuliana, si applicava molto e penso che da qualche parte conserva ancora con cura quegli spartiti e la tastiera della marca KORG is 50.
Inizialmente quando Giuly suonava sentivo le note quasi stridule, ma col tempo mi accorsi che era piacevole sentirla suonare.
Alcune volte fingevo di allontanarmi ma l’orecchio era sempre attento a lei e al suo suonare e mi piaceva perfino sentirla cantare: il dolce timbro della sua voce era come una nenia che mi cullava e mi faceva stare bene. Imparava gli spartiti e migliorava di giorno in giorno; la musica era diventata la sua compagna. Quanto avrei voluto che arrivasse a diplomarsi!
Cos’è la musica per me? È un’arte che tocca il cuore, è carezza e serenità. La musica fa rimanere giovani e fa tacere anche il dolore.
Si avvicinò il momento per Davide di entrare a scuola: il suo terreno era ancora un foglio bianco tutto da scrivere. Lo osservavo quando arrivava il pulmino e lui saliva per andare a imparare tante cose a scuola, mentre io avevo il cuore in gola.
Il nostro bambino frequentò la prima classe elementare, nel vicino plesso scolastico di Grazia. Doveva percorrere ancora tanta strada, anche se i primi due dentini erano già caduti, per raggiungere la meta “vita”. Mi sentivo realizzato, anche se cassintegrato, in attesa del gettone pensionistico, dopo aver lavorato per ben ventinove anni presso un’azienda di contatori elettrici per l’Enel.
Con Giuliana abbiamo vissuto bene insieme al nostro birbantello Davide, che aveva compiuto sette anni ed era entrato in seconda elementare. Allora abitavamo a S. Pietro di Milazzo, dove il bambino si era inserito abbastanza bene con i compagnetti di gioco, anche se con l’inizio della scuola dovette dedicarsi di più allo studio, trattandosi dei suoi primi appuntamenti importanti con i doveri della vita. Da più di due anni con noi c’era pure mamma Lucia che, poveretta, era a letto da cinque anni. Era circondata da tanto affetto e dalla grande cura che Giuliana le dedicava. Mamma Lucia, sua madre, aveva quasi ottantanove anni; io da sempre l’ho considerata come una mamma e le ho voluto un mondo di bene. Da quando era con noi era felice, specialmente quando tutti insieme intonavamo la canzone “Santa Lucia” e lei, che si chiamava per l’appunto con questo nome, ne era contenta. Per farle passare il tempo, giocavamo anche a carte con lei, specialmente al gioco del cavallo e la prendevamo in giro quando alla fine le restava in mano la carta del ciuccio.
Si divertiva con poco mamma Lucia; per noi erano momenti di felicità così genuina che scordavamo le nostre pene. La morte di mamma Lucia mi lasciò un grande vuoto dentro. Conservo nella mente quegli ultimi istanti di vita, il ritratto del suo viso, della sua figura amata. Quando guardo il volto di mia moglie, sua figlia, ne rivedo il viso martoriato dal dolore e nel mio pensiero tutto si ingarbuglia. Adesso la stanza che la ospitava è vuota, sento come un’eco e non riesco a proferire parola. Soltanto alcuni versi mi passano per la mente e li butto giù su un foglietto di carta qualsiasi. “Mamma, nonna Cia, hai sfiorato i novant’anni, col tuo passo hai attraversato il tempo”.


Capitolo 14
Un fulmine a ciel sereno

In un momento assai delicato pensai proprio che fosse arrivato il tempo di salutare il resto dei viventi quando, per un banale controllo spinto da Giuliana, viene evidenziato un palloncino all’aorta, alle radici del cuore. La cosa, oltre a preoccupare Giuliana, allarma il cardiologo che ci indirizza al Centro di Pedara in provincia di Catania – un Centro attrezzato per le malattie cardiache – e nel giro di pochi giorni mi ricovero ed inizia in tal modo un’altra avventura del mio andare per la vita. Dopo tutti gli accertamenti, si opta per l’intervento, quale spada di Damocle caduta su me. Il mondo mi appare ora grigio ora nero, guardando soprattutto l’espressione di dolore sul volto di mia moglie e, se volete, anche su quello del piccolo bocciolo che è il mio Davide.
Mamma Assunta con la sua preghiera tranquillizza Giuliana ed è sempre presente a questi eventi che sintonizzano e mettono a fuoco tale piccolo calvario, nello scorrere il viaggio della vita, incamerando sempre più i dolori che non si possono condividere con nessuno; ma il coraggio di questa donna, che fa parte integrante della mia famiglia, mi sveglia dal letargo. Grazie, mamma Assunta, per alleviare il mio dolore. Giuliana, tramite Raffaella, la moglie di mio figlio Giovanni, fa di tutto per avvisare il resto dei miei figli. Tutti sanno della mia situazione alquanto difficile e con il rischio di non farcela. Sono confortato dalle telefonate che i miei figli mi fanno per incoraggiarmi e starmi vicino, a modo loro, in questo momento che colloquio con l’aldilà. Gli istanti trascorsi sono stati duri oltre che per me anche per Giuliana, che mi è stata vicina tutti i giorni a Pedara, la quale dista circa centotrenta chilometri da Milazzo. In quella occasione, e non solo, gli Andaloro, miei vicini di casa, sono sempre stati presenti a questo andare e venire da Pedara. Sono cose che si commentano da sole, gesti che ho registrato in quei momento e che non dimenticherò mai. L’intervento andò bene; venni operato dal dottor Gentile a cuore aperto con tutti i rischi che comportava tale operazione, essendo tra i primi pazienti d’Italia a subirlo; infatti, a questo difficile intervento era presente una équipe giunta dal nord Italia. Grazie all’insistenza di Giuliana, oggi sono ancora qui a poterlo raccontare. Come si dice, devo la vita a questa donna venuta da Lecce, oggi mia moglie. Grazie!
Il continuo andare sembra irto di chiodi appuntiti che procurano ferite che sanguinano da tutte le parti. Il tragitto tracciato scorre sin da quando sono nato, senza che io possa appellarmi al volere divino, portando a tracolla gli anni correlati alle lacrime e ai pensieri, preparandomi ad un altro evento in questo vicolo pieno di ostacoli dove si dirige lo scorrere della vita, lasciando tante ombre che non potrò mai illuminare.
Come se non bastasse, dopo il delicato intervento a cuore aperto è stata la volta del distacco della retina all’occhio sinistro. Dopo vari tentativi per salvarlo con dolorosissime punture locali, ho perso la vista del citato occhio. È nel mio carattere non abbattermi e in cuor mio la cultura, principalmente rappresentata dalla poesia, occupava tutto il mio tempo, anche se mi sono sempre dedicato con amore a Giuly e a Davide. Feci parte di un gruppo che all’epoca si chiamava “Amatori della poesia” e come sede aveva il vecchio municipio di San Filippo del Mela. Si fece qualcosina, ma non abbastanza. Avevo sempre sperato di creare un gruppo di tantissime persone che amassero come me tutte le forme d’arte possibili. A San Filippo del Mela non restammo molto, solo qualche anno, il tempo di fare una silloge e qualche recita di poesie. Ci trasferimmo a Pace del Mela per un certo tempo. Si svolsero delle attività culturali, ma lasciammo anche quel sito e per un momento rimanemmo senza sede, pertanto gli incontri con gli artisti avvenivano a casa mia. Durante il periodo di Pace del Mela cominciai ad accusare dei dolori alla schiena. Pensavo si trattasse di banale sciatalgia e sopportavo fiducioso che essi passassero, ma nel dicembre 2008 rimasi in fondo a un letto, senza potermi muovere. Gli amici del gruppo facevano la spola da casa mia e questo mi riempiva il cuore. Ero il presentatore delle manifestazioni culturali che programmavamo e cominciai a disertare gli impegni a causa del mio stato di salute. Poi, sempre a dicembre, si scoprì che quei forti dolori alle ossa erano delle metastasi e i medici mi sballottarono in ripetuti ricoveri per identificare l’origine del tumore e iniziare una corretta chemioterapia. Dopo varie biopsie i medici scoprirono che si trattava di un linfoma non Hodgkin partito dal naso. Altro che polipetto! Cominciava così il calvario della chemioterapia, dei ricoveri e dei farmaci con le conseguenti lacrime. Ma non mi sono mai abbattuto, perché penso che la speranza sia quella che non dovremmo mai abbandonare. Ho gli amici, ho Giuliana che non mi abbandona di un passo, è diventata la mia ombra. Finalmente anche lei frequenta questo gruppo di amici un po’ matti che decantano versi, che dipingono e a volte si punzecchiano.
Penso finalmente di aver raggiunto il mio sogno, adesso ha un nome: FilicusArte. Raggruppa poeti, pittori, scultori...
Tutti gli amici, perché questo sono, mi amano e mi rispettano. Così adesso abbiamo una sede nella chiesa che un tempo fu di padre Cutropia e che adesso è di padre Marco, proveniente da Camaro come me. Questo giocattolo chiamato FilicusArte un giorno farà parlare di sé.
Nel tempo libero mi dedicavo con maggiore cura a quella che da sempre è stata la mia passione: la poesia, che trovo confortante nei miei momenti di abbandono, unico svago che mi resta per comunicare agli altri ciò che sento, continuando questo corso, spero interminabile, della mia vita. (Ho scritto più di milleottocento liriche, cercando di immortalare i momenti felici e quelli disastrosi che hanno seguito passo dopo passo il mio cammino). La passione per la poesia a volte mi distrae, ma non può sanare le ferite che porto dentro e che sono divenute col tempo vere e proprie piaghe per le quali non c’è medicina adatta a guarire, perché soltanto l’amore e l’affetto sono il toccasana per chi come me ha sempre mendicato questi sentimenti; cercandoli, alcune volte ho creduto di trovarli, ma la solita nube oscura sempre il mio tratto. Oltre alla poesia amavo dedicare il mio tempo libero alla presentazione di gare ciclistiche e di varie manifestazioni culturali. Devo essere sincero, appassionavo il pubblico con la mia bella voce! Proseguo comunque su questo cammino, e tenendo per mano Giuliana e Davide continuo ancora il mio percorso colmando gli spazi con i mille ricordi di me, di Giuliana, di Davide, che si affollano nella mia mente.
Ripenso al giorno della sua prima comunione, al pranzo dopo la cerimonia con Nunzio, mio carissimo amico, insieme a tutta la sua famiglia. Quel ricordo rimane per me un cammeo da conservare con cura. Tornando indietro nel tempo, che è il passaporto per la girandola di vita, avevo sempre presenti nei ricordi, oltre ai miei zii Mela e Nino – rispettivamente sorella e fratello della buon’anima di mia madre – anche i miei fratelli: Totuccio, che è sposato e padre di due figli, Maria e Raffaele, e abita a Genova; mia sorella invece – sposata anche lei con quattro figli: Anna, Miriam, Ida, ed Angelo, alcuni di loro sono sposati e l’hanno già resa nonna – abita a Barcellona Pozzo di Gotto. Questo è il quadro completo che fa parte dei miei affetti familiari. Insieme alla mia bella Giuliana e a Davide continuo a vivere vicino al mare e ai monti, in una cornice che tanti ci invidiano; ormai sono un pensionato con la speranza che ciò che mi rimane da vivere sia favorevole. Continuerò a vedere il sole, il gioco dell’alba e della sera e ad essi non potrò mai associare il calore del corpo che diviene cornice del passaggio umano, aggrappandomi agli steli di questi fiori ancora non sbocciati... che fanno parte dell’albero genealogico nella visione denudata di questo unico avere, mentre cambia nell’insieme l’evolversi della specie che appartiene allo stesso fiume di sangue. Mi accorgo sempre più che questo proseguo non cancella il passato e lascia una macchia. In quel tragitto tortuoso e pieno d’insidie posso annoverare i nipoti, che sono il risultato di tutto l’insieme, formando essi e solo essi la luce che splende nell’infinito, augurando loro un radioso avvenire; così sono apparsi nel mondo: Chiara, Gabriele, Mattia, Sara, Giorgia, Manuel, Samuele e Nicolò, che mi hanno dato la carica per continuare questo mio poco spazio del rimanente vivere, cercando sempre di aiutare Davide che ne ha tanto bisogno, perché di padre ce n’è uno solo e di nonni ce ne possono essere quattro. Non infierisco, ma rimango solerte a guardare quest’angolo di mondo che a volte mi appare tanto cupo che non riesco a vedere nemmeno la mia ombra. Auguri, figli miei, sono vostro padre e ogni dolore vostro è mio...
Tutt’oggi continuo la mia lotta per sconfiggere il male e aggrapparmi a quella fede nei miracoli che mi è stata insegnata.
Come sarà il mio domani?... Questo lo dovrà scrivere qualcun altro.


Carmelo presenta un’edizione della tradizionale Corsa Ciclistica
che si svolgeva ogni anno il 14 agosto a San Pietro di Milazzo




A mio padre che non c’è più

Ed oggi è il mio 18° compleanno e tu papà non ci sei più... Ne abbiamo passati diciassette insieme ma sono troppo pochi, quanto avrei voluto che ne trascorressimo insieme altri trenta almeno!... Tu che hai sofferto davvero tanto nella tua vita... Da quando sei nato con la perdita di tua madre... Tu che sei stato in collegio in orfanotrofio... Tu che hai superato davvero tante battaglie... Però quel cazzo di tumore ti ha portato via... via da me, dalla mamma e da tutte le persone care che ti volevano veramente bene ed erano tante tante, tutti ti ammiravano e ti conoscevano... Perché eri una persona fantastica, perfetta e ti facevi voler bene da tutti... Eri la persona più intelligente che abbia mai conosciuto... Mi mancano tutte le giornate che passavamo insieme... La tua splendida voce che io, come tutti, amavo ed ammiravo... le tue splendide poesie... Mi mancano i tuoi insegnamenti e i tuoi rimproveri... mi manca la tua presenza in casa, mi manca tutto di te... Ogni volta che facevo il compleanno ti sedevi accanto a me nel letto e mi guardavi dormire, mi accarezzavi i capelli, mi davi un bacio... io mi svegliavo dolcemente, aprivo gli occhi e mi dicevi: «Auguri papareddu»... Ed io so che tu stamattina eri lì accanto a me come ogni giorno... Scusami per tutte le volte che ti ho alzato la voce... Dentro di me ci rimanevo male, davvero male, come se mi esplodesse il cuore... ma non avevo quasi mai il coraggio di chiederti scusa... perché mi vergognavo di quello che avevo fatto... Scusami se non ti sono stato molto vicino come dovevo... Papà mi manchi... Avrei fatto qualsiasi cosa per tenerti almeno un altro giorno con me... Darei qualsiasi cosa per riabbracciarti almeno un’ultima volta. Resterai per sempre nel mio cuore. Ti voglio bene!
Il tuo Davide



POESIE di Carmelo Coppolino Billè


Fogli d’un libro
Tra le sporcizie d’una via scorgo
fogli d’un libro alla lettura del vento,
raccolgo e raccogliendo leggo:
sotto l’autore sembra di sentir lamento;
quanti pensieri rinchiusi, quanta tristezza,
al sol veder quel libro rifiutato
pensare che qualcuno lo disprezza
o forse già lo ha letto ed ha sudato.
Del Dante vi ritrovo un suo sonetto
che mente umana non può giudicare
e piango non con il viso ma con il petto
perché vorrei al mondo mesto gridare:
nelle notti ove Tu riposi e dormi
c’è chi scrive quei piccoli versetti
e la vista di quel libro è l’uniforme
posso io raggiunger vette?
Mentre m’affido alla pagina volatoria
a quella stracciata portata via dal vento,
e gridando ad alta voce orsia, orsia,
ma volesse il mio Signore
che quella pagina strappata almeno fosse mia.



Il mio paese
Sul monte come bandiera all’asta
non avendo tua presenza,
nell’amara amarezza sepolta...
Mio paese, hai visto i miei natali
offese trascinati dai mali.
Cantando al sole che non muore
non ti cambierei con una grande città,
affetto fermo pieno di dolore
ma pieno di passione e di beltà.
La chiesetta del battesimo che fu,
radice di me stesso emozioni surreali
mentre il pensiero mio tesso.
Piccola strada e tanti ricordi
visione della gioia degli anni
il latte di mia madre mi nutriva.
Paese piantagione della razza
mondo non fa cambiar affetto
anche se il militar t’offre la tazza
e vai a dormir sott’altro tetto.
Valicai il mare e si staccò il cuore,
lettere a volare e contavo le ore.
Portai una pietra or la ripresi
come fanno quelli per la pesca
e la riportai nel mio paese...



Ai miei compagni di collegio
Fratelli, miei compagni di collegio
sembra veloce il tempo, ma scorre adagio
sono accanto al destino e al vento
ed io sempre di voi mi rammento.
Ricordo il coro d’ogni sera,
quando recitavamo la preghiera
al vento si chinano i verdi rami
e tra i piangenti vitali siamo i primi.
Quanto chiasso nella camerata la mattina!
Ci facevamo i letti con tanta disciplina.
Queste pareti che hanno visto il pianto
e i nostri volti che soffrivano tanto.
Era poi l’ora della posta
chi non la riceveva piangeva e basta,
non si conosce né volto di padre
né cuore di madre...
...nessuno ci cercava allora
seguendo il tramonto e pur l’aurora
sfiorava il mio nome in quell’elenco
ed io per ricordo ancor lo tengo.
Dalla tristezza si passava al canto
proseguendo con la preghiera al Santo.
C’era il mio nome scritto appresso,
piansi ed ora lo confesso...


Carmelo, il terzo da sinistra in piedi insieme con i suoi compagni di classe presso la Città del ragazzo”, Messina



Ricordo d’uno scolaro
Bimbo correvo eretto e tranquillo
dove il passo mi portava senza senso,
ed ero pronto ad ogni squillo
allontanando dalla mente il penso.
Furono gli anni associati al pianto
quelli che si trascinano con tanto sdegno,
ma fanno parte intrinseca del canto
formando l’uomo nel suo impegno.
Ricordo quando marinavo la scuola
e con la bici correvo tanto forte
al pensarci niente mi consola
trovando chiuse tutte le porte.
Se tornassi fanciullo in età scolare,
studierei con tanto ingegno.
Sono tante le muraglie da scalare
che servono a tracciar tale disegno.


Padri e figli
Una sanguisuga la vita;
attorcigliata dal tempo
complicità assurda, mordente,
senza spiragli di luce...
galoppa, incombe, si diffonde,
macinato, cancellato, estinto.
Pesante diviene il passo
dal grato al degrado.
Vedo fuggire lontano,
non corro più come allora,
perdendo il passo barcollo;
col rospo che soffoca gola intrisa.
Volgo lo sguardo appresso,
dove il ricordo ha sede,
sgretolato dal silenzio.
Lasciando il confuso in ombra...
metafore astrattismi non colti,
mendico affetto non fuso,
l’ingorgo intravede passato
lo sguardo lacera innanzi.
Sono stati semi piantati, voluti...
accompagnati d’amore e perdono,
dal gelo e dal vento bruciati
in arida terra senza germoglio.
Non sono: né alberi né fusti:
solo fragili steli...

Poesia vincitrice del Concorso “Nunzio Giordano Bruno”



Nel cammino
Andai per una strada sconnessa
in un percorso sempre più buio,
arrestato a volte dalla mia paura
nella vita passata, presente e futura.
Vidi da lontano tanta gente
ch’io sconsolato mi fermai stante,
con gli occhi cercai tutto il presente
continuai a camminar passo costante.
Un attimo fu il mio smarrimento,
che persi di sfuggita tutto l’istante
mi parvero tante linee nel segmento,
che cominciai a percorrerle tutte quante.
Quando m’accorsi che tutti erano strani,
quietai il mio passo tutto rallentai,
bruciava il mio corpo mi guardai le mani,
convinto per altre strade andai.
Tutto nell’intorno sembrava mio
anche il buio pesto della notte,
ma ero solo soltanto col mio io,
ed eravamo vicini a mezzanotte.
Lanciai uno sguardo su nel cielo
vidi le stelle ancora più brillare,
ma negl’occhi m’è rimasto un velo,
senza paura il mio ricominciare.


A bedda vita
C’esti nu signuri ’nta li paraggi
chi si licchittìa tutti li jonna
lu’ntennunu parenti di li festi
chi tali e quali a jddu era so nonna.
U so tempu chi strascina a reti
e lu so postu di vera risidenza,
sunnu: lu bari, lu giuocu di li catti
ma ci voli cuscenza...
So figghi vannu tutti strazzati
cu li scappi chi si vidi u pedi
e ‘nta da facci chi parunu malati,
a buci fotti diciunu a vita:
ma quannu ti cheti?
Non semu così tutti i siciliani
chistu e fora razza sugnu sicuru,
nujautri rispittamu puru i cani
e pi la famigghia ni sbattemu
a testa o muru...

La bella vita
C’è un signore nei dintorni
che si agghinda tutti i giorni
lo intendono parente delle feste
e tale e quale a lui era sua nonna.
Il suo tempo che trascina dietro
e il suo posto di vera residenza
sono: il bar, il gioco delle carte
ma ci vuole coscienza...
I suoi figli vanno tutti strappati
con le scarpe che si vede il piede
e nel volto sembrano malati,
a voce alta reclamano la vita:
ma quando ti calmi?
Non siamo così tutti i siciliani
questo è fuori razza, sono sicuro,
noi rispettiamo pure i cani
e per la famiglia ci sbattiamo
la testa al muro...



U travagghiu
Chiddu chi suta tuttu lu jonnu
pi guadagnari lu pezzu di lu pani
picchì a so famigghia javi bisognu
e quannu arriva ci vaddunu li mani.
I picciriddi vannu criscennu
a fimminedda è quasi signurina
u patri capisci chiddu chi voli diri
e lu primu chi si suggi la matina.
Quantu pinzeri passunu pa menti
ora ca terra è tutta bannunata
e tutti vannu a fari li studenti
e a nostra vita è sempri chiù malata.
Pu beni da terra chi sempri ci manca
u profumu di prima era sinceru
ora tutti currunu pa fabbrica e pa banca
lassannu ‘ntallaria chiddu ch’è misteru.
Ma picchì, o miu Signuri:
lu travagghiu è così duru?
Fossi pi cunnannari a l’omu?
Jò da tant’anni travagghiu
e ommai pi’mmia lu travagghiu:
è giocu...


Il lavoro
Quello che suda tutto il giorno
per guadagnare il pezzo del pane
perché la sua famiglia ha bisogno
e quando arriva gli guardano le mani.
I piccoli vanno crescendo
la piccola ragazza è quasi signorina
il padre intende quello che vuol significare
è il primo che si alza la mattina.
Quanti pensieri attraversano la mente
ora che la terra è tutta abbandonata
e tutti vanno a fare gli studenti
e la nostra vita è sempre più malata.
Per il bene della terra che sempre ci manca
il profumo di una volta era sincero
ora tutti corrono alla fabbrica e alla banca
lasciando nell’aria quello che è mistero.
Ma perché, o mio Signore
il lavoro è così duro?
Forse per condannare l’uomo?
Io da molti anni lavoro
e ormai per me il lavoro
è gioco...


La preghiera
L’amore:
fa parte del pensare
annusando il capire,
pieno di tentazioni
vengono abbandonate,
difficilmente puoi mentire.
Sono bambino per capire
se io prego con amore,
solo Tu lo puoi sapere,
o mio Signore...!
La preghiera che io invoco:
è donata ai poverelli,
prego per chi mi ha lasciato,
dice la mamma che:
nel camposanto è andata.
È vero, o mio Signore?
Per finire la preghiera,
pace a Te, a tutti gli uomini
del mondo... e buona sera...



Un ricordo lontano
È là! La mia casetta,
identica al passato:
cambia il mio strillo
e il mio infantil vocio;
Infantile in fasce,
allora ella mi pasce,
non s’ode più la voce
di quella donna,
faceva tacermi cantando
la ninna nanna,
con quella voce sincera
d’una Madonna...
Quell’armonia di luce,
e di calore, quelle sante,
benedette sue parole,
il primo profumo,
il primo pianto,
perché al pensar
ne soffro tanto?
Eri troppo giovane
per quella sorte
e un fiore non sbocciato
per la morte,
dimmi tu quel ch’hai fatto
oh Mamma!
Tu ch’eri per me
il calore e la fiamma.
M’avventa la solitudine
al tuo pensiero,
e come un carcerato
sono prigioniero,
fosti in vita attimi,
mamma mia,
m’affidasti al Signore
dicendo e così sia.
Non conobbi
il tuo volto com’era,
per tutta la vita
ti porto la cera,
sei là in quel
fossato di terra,
ove la vista
il pianto afferra.
Quell’affetto povero
ma d’una Mamma
or non c’è più è
in quella terra Santa...
Il mio pensiero
non mi dà pace,
quanto dolore
e quanta brace,
tu sola eri l’unico
affetto mio, mamma, perché
ti ha preso il Dio?...
Era il cinque marzo
ed ella moriva,
in me rimane sempre
l’ombra viva,
una stanza che ha
la luce spenta,
c’è la lampada e
mia mamma che lamenta.
Tu vorresti dirmi tante cose,
quelle che ti rimasero
nel cuor che Dio ti pose,
non puoi più dirmeli
e ne soffri tanto. È vero?
Me le dirai quando sarò
anch’io nel cimitero...


Lettera aperta
Al Convegno di studi sulla tutela dell’ambiente a Milazzo

Mi chiamo Carmelo Coppolino Billè, da quarantuno anni abito a Milazzo e sento dentro me di essere un milazzese a tutti gli effetti. Con questa città ho condiviso gioie e dolori, ma da tre anni a questa parte sono stati più dolori e meno gioie.
La città di Milazzo ha bisogno di questi meeting per conoscere le tante realtà nascoste. Questa lettera Vi giunga attraverso padre Marco della parrocchia “Sacro Cuore”, che è stato l’ideatore di questo simposio sull’ambiente della città del capo, e la stessa viene consegnata all’amico Pippo Ruggeri, per il quale da sempre
nutro tanta stima, rappresentante della Legambiente di Milazzo e punto di riferimento per i milazzesi. Vengo al dunque: ricoverato per un banale dolore alle gambe, dopo tanti accertamenti mi trovo nel reparto oncologico del Policlinico di Messina, affollato da tanta gente ma soprattutto proveniente dalle nostre parti. Tanti nomi e cognomi della nostra piana che oggi non ci sono più “purtroppo” e che non vorrei divenisse una catena di S. Antonio. Ricordo fra l’altro in una stanza del reparto oncologico che su quattro pazienti, tre eravamo di Milazzo e questo mi fece subito pensare, e non so se fa pensare pure voi. A suo tempo, e precisamente un anno fa, mi veniva diagnosticato un linfoma che aveva attaccato le mie ossa e che mi costrinse a stare per tre mesi sulla sedia a rotelle. È stata un’esperienza che mi ha fatto piangere, ma senza perdermi d’animo e con la tenacia e la caparbietà che mi contraddistinguono, dopo dieci chemioterapie sono finalmente riuscito a mettermi in piedi. Ora sto continuando quella di mantenimento al fine di raggiungere la tanto desiderata guarigione. Dopo questa esperienza sono diventato un uomo di fede e credente nel miracolo.
Ora mi rivolgo ai relatori di questo raduno. Per concomitanza di data e di orario non posso essere presente, in quanto impegnato come coordinatore per la presentazione di un libro al Palazzo D’Amico, e visto che queste cose si fanno in casa comunale le concomitanze non dovrebbero accadere.
PERTANTO A VOI CHIEDO:
– Dott. Giuseppe Falliti referente WWF Sicilia “Aree industriali
a rischio”;
– Ing. Vincenzo Colavecchio membro Dierez. Reg. Legambiente
Sicilia;
– padre Giuseppe Trifirò Presid. Associazione Tutela
della salute del Cittadino;
– Dott. Ettore Lombardo Dirigente Tecnico Az. Forestale
Demaniali di Messina;
CHE CI SIA UN CONTROLLO SULL’INQUINAMENTO A MILAZZO E DINTORNI AL FINE DI PORTARLO NEI PARAMETRI CONSENTITI DALLA LEGGE. È POSSIBILE CHE DA MILANO IL PROF. VERONESI SAPPIA DELLA ZONA ROSSA AD ALTO RISCHIO TUMORALE E NOI CHE ABITIAMO NON LO SAPPIAMO? O CHE IL 30% DEI RICOVERATI AL SAN RAFFAELE DI MILANO SONO DELLA VALLE DEL MELA? MI CHIEDO: DOBBIAMO INTERPELLARE IL DOTT. BERTOLASO CHE SI OCCUPA DI FRANE, ALLUVIONI E CALAMITÀ MOLTO GRAVI ED IMPORTANTI?...
MA CREDETE CHE L’ALTO TASSO DI INQUINAMENTO SIA UN FATTORE SECONDARIO? IO CREDO DI NO,  MILAZZO È IN AGONIA, STA MORENDO LENTAMENTE... UNITE LE VOSTRE FORZE PER DARE UNA RISPOSTA AI MILAZZESI.
Grazie di avermi letto sin qui...
Camelo Coppolino Billè


Hanno parlato di lui
Gazzetta del Sud
Giornale di Sicilia
La Città
La Voce di Milazzo
Primo Piano
Siciliapress
Terminal
alidicarta.it
alberghimilazzo.alberghiitalia.4k.com
erimata.it
girodivite.it
it.blogbabel.com
liquida.it
malgradotuttoblog.blogspot.com
poesianuova.it
radiopatti.wordpress.com
24live.it
lacalibrataforever.blogspot.com
scrivere.it
barcellonapg.it
oggimilazzo.it
tempostretto.it
blogdelmela.blogspot.it
arapoesia.blogspot.com
parcodeinebrodi.it
messinasportiva.it
radiostereosantagata.blogspot.com


In ricordo di Carmelo

A me ha insegnato l’abbandono a Chi è più in alto di me, l’abbandono alla preghiera, alla fiducia nel prossimo, alla fede che oltrepassa, a volte, il dolore.
Grazie, Carmelo, per aver saputo dare esempi concreti del vivere, offrendo le tue mani – tu già sofferente – a lenire il dolore.
Tutti coloro che ti hanno conosciuto ti portano nel loro cuore e sanno che prima o poi si ricongiungeranno a te.
Roberta Tomaselli


Anni fa scrissi per te una poesia, non potevo ancora sapere che dopo qualche anno le prove cui saresti stato sottoposto sarebbero state immani. Adesso, a rileggerla, vedo come già allora l’affetto per te mi trascinava verso il gruppo che si andava formando e di cui tu eri il promotore. Mi hai fatto conoscere altresì un mondo di uomini e di sentimenti espressi attraverso l’arte. Nelle tue poesie hai cantato la vita e io ne ricordo la voce.
Anna La Rosa


Ci sono momenti in cui le parole sembrano superflue, scontate e senza senso, perché spesso non sono dettate dal cuore, vero motore di sentimento. Carmelo, invece, le usava per catturare l’animo di chi leggeva e legge i suoi versi. Tutta la sua poesia ripercorre la storia di un viaggio, è dunque un riflesso poetico vissuto parallelamente ad una vita di straordinaria intensità. È musica pura e i suoi versi a volte tesi come corde di violino vibrano e si soffermano su ogni cosa, descrivendo minuziosamente ogni aspetto di vita e donando, a chi sa coglierli, un barlume di speranza. Ecco allora che, a parer mio, il suo diviene un messaggio o semplicemente potremmo dire che la sua è stata vera “follia poetica”.
Mariella Corso


Finito di stampare nel mese di febbraio 2013 per conto
dell’Associazione Smasher di Barcellona Pozzo di Gotto