Mancava quella voce amica che incoraggia in un momento critico, nella solitudine. In queste fasi del cammino si forma l’uomo di domani. Tali primi ponti ho dovuto attraversarli da solo. Il mio mondo reale era formato da ombre giganti che oscuravano quella culla divenuta la sede del crescere. Spaziando da quell’angolo buio, i ricordi sono cancellati, ma le sensazioni fanno ancora parte del vivere. Ora mi accingo a scrivere la mia vita che somiglia tanto ad una pagina del libro Cuore Di Edmondo De Amicis.
Carmelo Coppolino Billè
Capitolo 1
La verità nascosta dal silenzio.
Inizia da qui la mia storia, per poi tornare a ritroso lungo il
cammino... Camaro, una periferia della città di Messina, ubicata sotto i
monti Peloritani, con un grappolo di case che ricordano le vecchie costruzioni
che hanno resistito al forte terremoto del 1908. Percorrendo il lungo
viale, ricavato dalla copertura del torrente che dai monti porta
dritto alla battigia del mare e che prende il nome di viale
Europa, in un batter d’occhio arrivi proprio al centro della città.
Tante volte nell’età giovanile divoravo quei tre chilometri come
niente, ritrovandomi nella notissima piazza Cairoli, nel punto dove il
Nobel Salvatore Quasimodo presso il bar “Irrera” faceva il suo punto
d’incontro, leggendo agli amici le ultime liriche da lui create e
ricevendo commenti. Tra questi amici c’era pure Salvatore Pugliatti che,
in seguito, divenne il rettore dell’università della città dello
stretto, mentre Quasimodo era un impiegato del Genio Civile di Reggio
Calabria. Era di domenica che il poeta attraversava lo stretto
per vedersi con i vecchi amici. Lascio alle spalle la pineta che,
come una cartolina d’altri tempi, abbellisce lo scenario di questa città,
da cui si può estendere lo sguardo sullo stretto di Messina che dall’alto sembra
un fiume in piena, in quella lingua di mare. In questi luoghi ho
alimentato i miei sogni giovanili che si modifica vanno di pari passo col
mio crescere. Prima erano stati sogni di bimbo che ancor oggi mi scorrono
davanti. Ricordo il mio primo giorno di scuola. Correva l’anno 1952.
Con il grembiule blu e un fiocchetto rosso facevo l’ingresso nel plesso
scolastico delle scuole elementari di quella frazione. Iniziava così
l’inserimento in una parte di società sino ad allora sconosciuta,
accompagnato dalla mano stretta di mia madre Grazia Raffa. Come ogni
bimbo, per la nuova esperienza piangevo ed ero contento nello stesso
istante, vedendomi affrontare da solo per la prima volta questo passo che
per tutti diviene l’inizio di un cammino necessario.
Il cognome del maestro era Amata e noi lo chiamavamo “il professore”:
un uomo di mezza età che si faceva rispettare. Aveva un modo di porgere le
lezioni che faceva piacere sentire, ma se qualcuno disturbava il suo
lavoro non ci pensava due volte a punirlo, togliendosi l’anello e
dando uno scappellotto, inducendolo così a stare attento.
Metodi d’altri tempi che allora ci sembravano i soli. Per la
prima volta nella mia vita sentii chiamare l’appello e il mio nome
e cognome risuonò nell’aula, ristrutturata in occasione dell’apertura
dell’anno scolastico.
Sentii un brivido quando il maestro pronunciò: «Billè Natale.»
Ed io con una voce bassa e tutta di petto risposi: «presente.»
Tra i compagni di scuola c’erano quelli di gioco, insieme ai quali
avevo mosso i primi passi e dato pure qualche calcio al pallone. I miei
genitori erano festanti, poiché il loro unico figlio si accingeva a
bussare all’enorme porta della vita. Scorrevano quegli anni come nel suo
letto un fiume per raggiungere il mare.
Mio padre, Giovanni Billè, uomo di campagna devoto al lavoro e alla
propria famiglia, aveva un’intelligenza innata. Il suo orologio era il
sole. Dopo tanto lavoro con la zappa divenne un uomo curvo. Lo conoscevano
tutti e lo chiamavano “Cumpari Vanni”. Per lo più lavorava nel
suo appezzamento di terra. Allora non esisteva la motozappa ed egli
doveva fare tutto con la forza delle braccia, a quasi
cinquant’anni, mentre per me scorrevano gli anni di scuola.
I ricordi sono tanti, ma quello che più mi colpiva era quando, al
mattino, mi chiamava per andare a scuola e mi diceva: «Nataleddu, suggiti
ché taddu» E dopo qualche mia marachella egli riusciva a farmi
andare a scuola.
Sino alla morte mi ha chiamato con quella lucidità mentale che lo
contraddistingueva.
Mia madre, una donna di dieci anni più grande di mio padre, con i
capelli brizzolati, sarta part-time e mamma a tempo pieno, mi leggeva le
poesie, mi ripeteva qualche passo di storia e soprattutto mi raccomandava
di rispettare gli altri. Con questo vangelo recitato, che faceva parte del
suo bagaglio culturale, mi infondeva i sani principi del vivere
in quel casellario di vita vissuta. Nel corso degli anni mi
sono ritrovato con il suo grande amore e le raccomandazioni
di percorrere la strada della mia vita conservando ancora il biglietto da
visita, che non era scritto ma visibile nel mio modo di fare. Tra la
polvere del tempo ritrovo ancora nei miei ricordi la sua dolcezza
espressiva che mi segue ovunque vada.
Entrambi i miei genitori mi hanno dato le basi del crescere onesto.
Raggiunta la quarta classe elementare, venne il mio turno della prima
comunione. Nel giorno tanto atteso regnava un’aria di festa. Avevo un
abito bianco e un giglio tra le mani, mentre i miei genitori indossavano
il vestito delle grandi occasioni.
Sembrava tutto surreale e, invece, era vero. Anch’io mi avvicinavo a
quel credo nella chiesa di S. Giacomo Apostolo, prendendo posto in prima
fila, per essere più vicino al mio Dio. Avevo accanto i parenti e gli
amici che avevano condiviso quella parte della mia vita, facendo da
cornice al mio volto incredulo, dipingendo in esso un segno di felicità.
Avevo passato i nove anni e mi accingevo all’ultimo delle elementari;
nel frattempo andavo al doposcuola dalla signora Gina insieme a mia cugina
Graziella, anche lei una Billè, figlia del fratello di mio padre. Le
volevo un bene fraterno.
Non brillavamo né lei né io nello studio e dovevamo essere aiutati
nelle materie che odiavamo di più, specialmente la matematica, ma alla
fine venivamo sempre promossi. Graziella era una bella bambina con i
capelli neri e un bel sorriso, nascosto a volte dalla sua timidezza.
Abitava vicino a casa mia, insieme ci avviavamo sia a scuola che al
doposcuola.
Terminate le elementari, le nostre strade si divisero: era arrivato il
momento in cui dovevamo scegliere il nuovo indirizzo scolastico; se però
si sbaglia la scelta, si finisce di sperare in quel collegamento che fa da
cordone ombelicale tra noi e la vita. Io puntualmente sbagliai. Tra i
tanti ricordi di quell’infanzia ci sono momenti in cui vedevo passare il
tempo insieme alle sensazioni ed alle emozioni di tutti i giorni e mi
trascinavo, senza veramente volerlo, scorrendo a tratti visioni di sogni mai avverati.
Risento i miei stessi passi e la verità galopparmi accanto, senza
poterla modificare, costringendomi ad accettare, senza appellarmi, tutte le
modifiche che si incontrano durante lo scorrere della vita. Di quel
periodo ricordo un episodio ben incuneato nella mente: un compagno di
scuola ci comunicò che suo padre voleva emigrare in America con
tutta la sua famiglia, in cerca di quella fortuna che mai
incontrò nella nostra terra. Si chiamava Mimmo Cacciola e, finita
la frequenza della quinta elementare, si trasferì in quel continente,
lasciando il luogo nativo che era Camaro. Da quel momento perdemmo
ogni contatto. Essi seguivano la scia che tanti italiani avevano
intrapreso prima di loro per scoprire strade sino a quel momento
sconosciute. Quel caro ragazzo non aveva potuto modificare la sua vita
come io non potevo cambiare la mia; non dipendeva da noi
dopotutto: eravamo in balia degli adulti e delle circostanze
avverse. Avevo poco più di undici anni, ero intento a giocare
insieme ad altri bambini in via Puntale, dove c’era la casa in cui
abitavo coi miei genitori. I giochi erano innocenti: infatti, a quei tempi mancava la tecnologia dei giorni nostri, ma non
scarseggiava di certo l’inventiva, come quella di trasformare uno straccio
in una palla di pezza; si formavano subito le due squadre che dovevano
rincorrerla. Oppure giocavamo a nascondino e a tanti altri giochi che ci
aiutarono a vivere e ad alimentare la nostra fervida
immaginazione. Figuratevi!
A quell’epoca facemmo parlare il giornale della città, La Gazzetta del
Sud. Dopo esserci riuniti, noi ragazzi gonfiammo un pallone che uno di noi
aveva comprato alla fiera Campionaria di Messina. Quel pallone era grande
come una mongolfiera e per gonfiarlo impiegammo un’intera
giornata. Poi, da una nonna di via Puntale che per respirare aveva
bisogno della bombola d’ossigeno, prendemmo in prestito la cannula e
gonfiammo quell’enorme pallone inserendo pure una lampada con una
batteria. Sul calar della sera lo lanciammo in cielo: era tanta la forza
di quel pallone a
spicchi rossi e bianchi che ci scappò dalle mani; inseguendolo con gli occhi, lo vedemmo posizionato sullo stretto di Messina e tutta
la gente fino a Reggio, col naso all’insù inneggiava ad un ufo.
Fu uno spettacolo che interessò circa centomila persone. Le autorità,
per rendersi conto di quanto stava succedendo, dall’aeroporto militare di
Sigonella, una base militare americana, mandarono in perlustrazione degli
aerei, coadiuvati da
altri partiti dagli aeroporti di Reggio Calabria e Catania,
che registrarono quanto avevano visto. L’indomani sul giornale della
città uscì l’articolo con la foto “Avvistato un ufo sullo stretto”. Noi
ragazzini spaventati ci rinchiudemmo in un silenzio di tomba. Alcuni, tra
i quali anch’io, ricordano ancora quella visione.
Intanto passavano i mesi e anche la mia vita si avvicinava a scoperte
drammatiche.
Carmelo Coppolino Billè bambino. Messina, 1949
Foto di famiglia. Carmelo Coppolino Billè con i genitori adottivi
durante la sua prima comunione. Messina, 1955
Capitolo 2
La scoperta
Un giorno, avevo appena lasciato papà in
campagna e mi dirigevo verso casa, quando incontrai un anziano signore. Mi
sembra che tutti lo chiamassero don Biagio. Questi ad un tratto mi chiese se
potessi salire in cima a un pioppo, per raccogliere le foglie. Non sapendo il
motivo di questa sua richiesta e a cosa potessero servire quelle foglie, mi
rifiutai. Riuscivo ad avere più raziocinio di quell’adulto che si arroccava il
diritto di mandarmi allo sbaraglio col rischio di precipitare al suolo. Non me
la sentivo proprio di arrivare così in alto sul pioppo. Ad un tratto lo sentii
inveire contro di me con parole così crude che mi lasciarono di stucco.
«Figlio di puttana, non si sa come sei
venuto al mondo.
T’hanno trovato non si sa dove, bastardo
che non sei altro, perché non vuoi raccogliere le foglie?» Io rimasi di pietra,
mentre lo guardavo stupito; allo stesso tempo guardavo anche il mio amico
Giovanni che si trovava lì con me e assistette a questa disgustosa scena. Eravamo
solo dei ragazzi e un po’ presi di paura andammo
via lasciandolo lì sul posto. Arrivato a casa, c’era la mamma Grazia in
cucina che preparava il pranzo; le chiesi spiegazioni, ma non riuscivo a trovare neanche le parole giuste.
Lei capì subito e cominciò ad innervosirsi, battendo le pentole qua e là;
in seguito capii che non ce l’aveva con me ma con quell’uomo prepotente e violento
di cui le avevo parla to. Quell’episodio mi lasciò l’amaro in bocca e il
desiderio di non ritornare più sull’argomento con lei. Una sera, mentre giocavo
a nascondino insieme ai miei amici della borgata, mia madre mi chiamò per la
cena ed io, come tutti i bambini di quell’età, scappai e, senza riflettere, le
risposi male e lei arrivò infuriata, dandomi un ceffone. Al balcone della sua
abitazione c’era la signora Ciccina (Francesca) che ebbe una reazione
spontanea, dicendo: «Gli date botte perché non è vostro figlio!» Queste parole entrarono nel mio cuore
come una pugnalata e nella mente tutti i miei pensieri subirono uno
scombussolamento, facendo nascere dei dubbi sulla mia vera identità. Sconsolato
per l’accaduto, ne parlai con padre Letterio, parroco della chiesa di Camaro. Proveniva
da Villafranca Tirrena, un uomo colto, preparato sul suo dicastero. Era
disponibile con tutti ed aperto ad ogni colloquio sociale. Di me sapeva tutto e
alle mie domande, accompagnate da qualche lacrima per lo scoramento, non
sapendo più mentire, mi disse: «ora sei un ometto e sei pronto a recepire
quanto ti sto dicendo. I tuoi genitori sono quelli che ti hanno adottato. Tanti
bimbi soffrono per non aver avuto una famiglia e tu ce l’hai. So soltanto che
la tua vera madre è morta quando sei nato. Tu ai tuoi genitori adottivi devi volere bene come loro ne vogliono a te. Se hai bisogno di
qualsiasi cosa, vienimi a trovare. Ciao, Natale.»
Tale rivelazione, a quell’età, quando non avrei potuto prendere delle
decisioni, mi mandò nel panico, ma non avevo il coraggio di confidarmi con i
miei genitori, ai quali volevo un bene dell’anima. In casa feci finta di niente
col sorriso stampato sulla faccia, nascondendo il dolore, mentre mi portavo
dentro quell’amara verità che, sommandosi a tutto il resto, per un bambino
diveniva un peso troppo grande da trascinarsi appresso.
...Era l’anno 1957, mi iscrissi all’istituto “Juvara” insieme ai gemelli
Ballarò. In questo enorme istituto non c’era più il maestro ma i professori.
Ognuno di questi per la propria materia, come di consueto, chiamava l’appello
degli studenti. Al suono di «Billè Natale» risposi ancora una volta «presente »,
ma venni convocato in segreteria dove mi richiesero il certificato di nascita
storico, spiegandomi che c’era qualcosa da chiarire. Il professore Buemi – lo
ricordo con quel cappello degli anni Trenta e quel sorriso aperto e pronto a dialogare,
impartendo insegnamenti che facevano parte del suo stile di vita – somigliava,
ricordo, al cantante napoletano Aurelio Fierro. Egli, proveniente dal paese in cui ero nato anch’io,
incuriosito, mi chiese a quale famiglia appartenessi; io non seppi rispondere,
sapevo solo che ero nato a Castroreale. Quel nome, Billè Natale, gli era giunto
nuovo e non riusciva a collegarlo a nessuno di quel paese.
Entrammo in un dialogare più profondo ed egli mi promise che l’indomani si
sarebbe informato al Comune per capirne qualcosa di più. Dopo alcuni giorni
arrivò con il certificato storico di nascita che riportava quanto segue:
“Coppolino Carmelo, figlio di Lucio e fu Russo Maria, è stato adottato dalla famiglia Billè di
Messina” (oggi Carmelo Coppolino Billè). L’insegnante aveva scoperto la verità,
ma rimandò questo difficile colloquio con me; non sapendo come dirmelo,
tentennò a lungo: voleva evitarmi altri dolori. Io non riuscivo a capire perché
nell’estratto di nascita storico cambiasse solo il mio nome; mi ritrovavo,
comunque, dentro il grande palco della vita, non più come Natale Billè ma come
Carmelo Billè.
Continuai con caparbietà ad indagare, mantenendo il silenzio.
Chiesi informazioni su dove potessi trovare un giornale che parlava della
cronaca dell’anno 1946. Qualcuno m’indicò la biblioteca dell’università. Un
giorno marinai la scuola e mi nascosi dentro l’Ateneo della città dello
stretto, dove c’erano enormi scaffali muniti di una scala scorrevole che
toccava quasi il tetto, con carpette enormi evidenziate da scritte a lettere
cubitali, nelle quali erano raccolte le pagine dei giornali con la cronaca di Messina e provincia. Afferrai l’enorme plico dell’anno 1946: a stento
riuscii a deporlo sul tavolo in mezzo allo stanzone.
All’interno il plico conteneva fogli, o per meglio dire paginoni, dove si
parlava dei reduci di guerra, di qualche soldato che ancora non era tornato, di
politica, di calcio e di cronaca redatti dal quotidiano La Tribuna; proseguendo
la mia lettura, iniziai a scorrere quegli enormi paginoni, risalendo alla data
dopo la mia nascita. In quel mese non trovai nulla, ma ai primi di marzo –
esattamente il sei marzo di quell’anno – lessi un articolo che recitava:
“Uccide la moglie infedele, il marito è latitante. Delitto successo a Scaletta Zanclea;
su La Tribuna di domani ci saranno tutte le delucidazioni”.
Quello scritto mi congelò il sangue, ma la località menzionata non mi diceva nulla! Girai pagina e gli occhi si posarono su una frase
evidenziata dal mio sesto senso. “Rettifichiamo: l’omicidio non è successo a
Scaletta Zanclea ma a Castroreale montagna...”. Continuai a sfogliare ancora le
pagine e un altro articolo esponeva: “La malcapitata recava in braccio un bimbo
di un mese e tre giorni di nome Carmelo, la donna si è accasciata al suolo
insieme al neonato cercando di proteggerlo; accorsero i fratelli e le sue
ultime
parole furono: «Vi raccomando i miei figli.» Poi spirò, lasciando per
sempre questa luce terrena, inoltrandosi nel buio della notte, avvolta dalle
tenebre a soli ventisette anni; il marito è latitante ed il piccolo è stato
portato al brefotrofio della via XXIV Maggio di Messina”. Quando la mia mente
registrò tutto questo, capii che quel bimbo ero io e per quasi dieci minuti mi
mancò il fiato, mi accorsi solo marginalmente di non riuscire più a respirare. Accompagnato
da un pianto straziato, avevo la sensazione che mia madre fosse stata uccisa in
quel momento: mi scorrevano innanzi agli occhi quelle immagini che non avevo
mai visto ma che nell’inconscio avevo ricostruito insieme a quel gesto del suo
abbraccio che mi aveva protetto. Vi lascio immaginare come mi sentivo: il
sangue mi si congelò in corpo, la bocca era asciutta e serrata, il cuore
batteva come i rintocchi di una campana stonata che rimbombavano nelle mie
orecchie. Mi sentii oppresso da questa verità più grande dell’età che avevo,
ecco perché il mio viso cambiava di umore: interpretava questa parte reale del
mio dramma. Cercai di rinchiudere tutto dentro quel cassetto che era il mio
cuore, sperando che ancora ci fosse un poco di spazio per celare le lacrime che
avrei dovuto nascondere di nuovo senza poterle esternare: dovevo tenerle solo
per me, insieme al dolore che non aveva eguali, specie se dovevo associarli a
un sorriso finto. Ancora una volta avevo bisogno di un prete, per continuare la confessione iniziata qualche giorno prima, sfogarmi con qualcuno,
rivelando quanto avevo appreso da poco con quel continuo cambiamento dei
fotogrammi che, senza requie, avevano invaso il mio pensiero. Raccontai tutto al
parroco, che mi aveva conosciuto da piccolino, con gli occhi adombrati di
lacrime e con lo sguardo assente. Il parroco mi ascoltò con tanto interesse ed
anche i suoi occhi furono contagiati dalle mie lacrime; alla fine mi disse:
«Solo la fede può essere un rifugio. Lungo la tua via troverai altri dolori che
ti cammineranno accanto ma, percorrendo quella strada che per te sarà quella
del perdono, da solo riuscirai ad arginare questo tuo dolore. Io sono sempre
qua; se hai bisogno di qualsiasi cosa chiamami e ti sarò vicino.» Tutte queste
scoperte non avevano indebolito il mio amore per i miei genitori, anzi
l’avevano rigenerato. Arrivato a casa, dissi che mi faceva male la testa,
comunque cenai insieme a loro e poi andai a letto, cercando di dormire, ma i
pensieri richiamavano ombre che vidi per tutta la notte. Avevo in gola un
singhiozzo che trattenevo a stento per non farmi scorgere. Mentre mia madre mi
sistemava le coperte, io fingevo di dormire nel silenzio notturno accalappiato dal
buio dove i pensieri tacitamente andavano a rintanarsi, per torturarmi.
Durante la ricerca del sonno meditavo sul fatto che non esiste gesto più
grande di quello di adottare un bambino, perché poi, a parte il discorso
genetico, tua madre e tuo padre sono coloro che ti crescono, con quelle premure
che hanno cancellato molte mie lacrime, facendomi ritrovare il sorriso e, anche
se il mio grazie non ripaga nessuno, sarò sempre riconoscente. Avevo trovato in
loro la famiglia e un punto di riferimento che segnò lo scorrere di quegli
anni. In quella contrada di Messina, gli appuntamenti cadenzati con i coetanei
riportavano alla normalità il mio proseguo al vivere: era un quadro che mi
apparteneva, imbellito anche dalla loro presenza, correlato dai loro abbracci o
dai rimproveri che servirono tanto alla mia crescita, con la maturità di un
ometto raggiunta prima ancora dell’età anagrafica. Le lacrime nascoste, messe
in un calice, servirono a maturarmi. Dal mio lettino con lo sguardo catturavo
ogni visione che mi trasportava alla verità: le premure o la fettina di carne, solo
per me, mi fecero capire che l’amore non ha confini, ma gratuitamente si offre
nel contesto della vita azzannata da quel destino, non voluto ma corretto e
sorretto da quelle mani che protese hanno accompagnato le mie! Furono queste le
visioni di quelle notti, che mi apparivano spettrali, mentre abbracciavo il
cuscino.
L’indomani mattina non vedevo l’ora che suonasse la campanella per poter
parlare col professore di Castroreale; era stato lui che dal certificato
storico aveva ricostruito le mie origini. Avevamo dieci minuti di ricreazione,
ma bastarono per spiegarci, appartati in un angolo dell’aula. Il Buemi non
voleva dirmi la verità; cercò di addolcire quell’amaro che anche per lui era
divenuto veleno, inventando una favola nuova che, però, in casi simili è sempre
la stessa e si incrocia con la vera storia. Anch’egli, infatti, collegando tempi
e luoghi del posto dove entrambi eravamo nati, aveva vissuto questo mio dramma.
Lo interruppi subito, raccontando quello che avevo fatto il giorno prima e
che sapevo la verità. Il professore mi guardò e mi disse: «sei un piccolo
grande uomo» e non ebbe più parole; istintivamente mi abbracciò forte come per farmi
coraggio, «vieni a trovarmi, quando vuoi.» La mia mente fu sconvolta ancora una
volta da questi eventi.
Maria Lucia Russo, madre di Carmelo, davanti alla sua
casa. Castroreale, 1946
Capitolo 3
Castroreale: La meta
In quel periodo andavo bene in bici e mi sentivo un piccolo Coppi; decisi
dunque di recarmi di persona in quel paese che non conoscevo ma conosceva me:
ogni documento evidenziava il mio luogo di nascita. Anche mia madre aveva
inventato una favola per nascondermi la verità: «siamo stati sfollati dopo la
guerra e ci trovavamo in quel paese e lì sei nato tu.» Io ho creduto per anni a
ognuna di queste parole.
Non sapevo neanche dove fosse geograficamente Castroreale; attraverso le
informazioni seppi che era sopra Barcellona Pozzo di Gotto. Inforcai una bici
da corsa, una “Legnano” di terza mano, e mi avventurai verso la meta prefissatami.
Arrivato nella città del Longano, chiesi dove si trovava quel paese. Un
vecchietto piuttosto sbigottito mi domandò se dovevo andare in bici o col bus;
sfoderando un sorriso risposi fiero: «con la bici!» Così mi avviai dove quell’uomo
mi aveva indicato. Per la verità la salita era dura, anche perché avevo
valicato i Peloritani ed ero quasi giunto ai Nebrodi.
Castroreale è dunque il luogo che mi ha visto nascere in un’apparizione
momentanea; geograficamente è situato tra i Peloritani e i Nebrodi, da dove si
può ammirare ciò che la natura ha messo insieme: tutte quelle bellezze che
imperano in una offerta visiva immortalata dallo sguardo, che funge da obiettivo con
sviluppo istantaneo d’una foto.
La visione rimane impressa nel ricordo che sfoglio di tanto in tanto nella
mente: lo scenario delle Eolie e il golfo di Milazzo, dominio visuale tra
monti, vallate e mare, quando ancora i ricordi della guerra erano visibili in
tutto il territorio nazionale. Era l’anno 1946, nel cui mese di febbraio nascevo,
ma quasi subito quell’affetto che mi aveva generato mi lasciò e mi fu negato
chiamarla mamma. Oltre me c’erano altri due pargoli: Totuccio (Salvatore) e Maria
Pia che, anche se nati prima di me, non erano meno bisognosi d’affetto e
d’amore. Mancata mamma, oltre al lutto visivo c’era pure quello del cuore: fui
spedito tra i bimbi del dolore o quelli del pianto; il brefotrofio divenne la
mia nuova casa, via XXIV Maggio a Messina la mia nuova dimora. Rimasi tre anni
in quei lettini contornati da una cornice di pianto che privava di amore e
affetto coloro che lo cercano e chiamano.
Arrivai nella piazza del paese alle dieci e quindici minuti, me lo fece
notare l’orologio del campanile appena raggiunto; da premettere che da Messina
ero partito alle ore 6,50 e già ero arrivato al mio obiettivo. Piovigginava,
eravamo in ottobre avanzato. Entrai in una chiesa con lo sguardo un poco
smarrito e mi diressi verso un uomo che accendeva le candele sull’altare quando
incrociai lo sguardo di un prete, al quale chiesi se potevo disturbarlo un
attimo; lui con modi garbati e gentili mi invitò alla volta della sacrestia. «Sono
padre Giacinta» disse il parroco della chiesa «in che cosa posso esserti
utile?» La mia risposta fu breve ma precisa. «Sono nato qua ma non so chi sono;
penso che questo sia l’unico luogo dove posso attingere notizie sulla mia vera
identità.»
«Come ti chiami?»
«Carmelo Billè» risposi tutto affannato.
Aprì un grosso registro, incorniciato dalla polvere e, sfogliandone
le pagine, risalì all’anno di nascita, al mese e al giorno in questione e
si soffermò su due Carmelo, poi continuò «figlio di Lucio e di Russo Maria.» Io
già avevo letto questi nomi e, quindi, ero preparato, ma come faceva il buon
prete a dirlo a un bambino? Certo anche per lui non era una cosa facile: iniziò
una nuova versione, ma anche questa volta interruppi l’interlocutore e andai
subito al dunque.
Io, che avevo già visto il certificato di nascita storico e l’articolo su
La Tribuna, l’avevo subito collegato al Coppolino, mentre il prete al primo
impatto non c’era arrivato. «Padre, sono in possesso del certificato di nascita
ed uno dei due Carmelo sono io, ed esattamente quello generato da Luciano e Maria
Russo. Padre, so tutto, ho inghiottito tanti bocconi amari in quest’ultimo
periodo.» Il prete mi fissò negli occhi e borbottò «sei piccolo d’età ma allo
stesso tempo grande! Vieni, ti offro una cioccolata calda» e ci avviammo verso
l’unico bar della piazza. Adesso sembrava che avesse voglia di continuare a
parlarmi. Mi disse pure che quel signore sull’altare, che stava accendendo le
candele, era il fratello di mia madre ma, siccome era ammalato di cuore, era
preferibile al momento non dirgli niente. Ritornammo in chiesa ed io lanciai
con lo sguardo un abbraccio a quell’uomo che era mio zio e il prete mi
rassicurò: «Poi glielo dirò io con calma.»
Mi fece salire su una Seicento di color verde chiaro e ci avviammo verso il
cimitero posto al di là del paese. Nel breve tratto di viaggio mi parlò di mia
madre, che non aveva conosciuto ma di cui aveva tanto sentito parlare,
decantandone le virtù di donna di fede. Entrammo nel sacro luogo, dove i
problemi si lasciano dietro il cancello insieme ai viventi, e ci incamminammo
verso la tomba. Il tempo continuava con la sua pioggerellina sottile come tante
lacrime versate dall’aldilà quando intrapresi la salita che portava alla tomba
di mia madre; alzai lo sguardo e chiesi al prete dove fosse sepolta. Alla
domanda esitò un istante e con la voce balbettante mi disse: «tua madre ti ha
chiamato.» Vidi in quel volto lo smarrimento di un uomo nella più totale
difficoltà.
Senza volerlo, gli occhi si riempirono di lacrime sul volto tirato, ma ero
contento di avere raggiunto quel che da tanti giorni cercavo, come fosse un
richiamo. Fu così che trovai mia madre, per la prima volta della mia esistenza,
sotto una terra gelida ed una croce arrugginita, con la scritta: “Qui giace
Russo Maria. Una prece”. Una foto mi fece soffermare su quei lineamenti di
donna bellissima, e ritenevo quasi impossibile che a soli ventisette anni si
trovasse in quel luogo per colpa di una mano omicida. Mi chinai a deporre un
fiore di campo su quella tomba che tanto avevo desiderato vedere. Insieme al
mio, il buon prete aveva preso in chiesa altri fiori, destinandoli a mia madre.
Questo fu uno dei momenti in cui nessuno può aiutare: ci si isola nel pianto
che graffia pure il silenzio, per sfogare la rabbia che si ha dentro
rinchiudendola in noi stessi, unici destinatari di quegli istanti.
Il prete mi annunciò che avevo un fratello e una sorella e che anche loro
erano stati toccati da questa tragedia che aveva segnato ogni loro passo.
Diveniva così incerto affrontare e chiarire anche le difficoltà nate da
questa disgrazia. Le nostre strade erano state divise. Io al brefotrofio per
tre lunghi anni, poi adottato. Mio fratello Totuccio aveva poco più di sei anni
ed aveva vissuto in diretta il dramma, senza poter appellarsi a quanto accaduto,
inondando il volto di lacrime amare, soffrendo per quel silenzio che non ha più
voce. La vita d’un tratto era cambiata anche per lui che era il più grande,
anche se pur sempre un ragazzino.
Da quel momento i suoi giochi di bambino erano finiti; abitava ora da uno
zio ora da un altro, poi a Genova da un terzo zio, o a Castroreale con altri
zii in quella confusione accompagnata dalle lacrime, che, però, non facevano
risorgere chi ci aveva lasciato, anzi aumentavano la certezza che il nostro
piccolo nucleo familiare era stato distrutto per sempre. Anche mia sorella
Cettina, che all’epoca aveva tre anni, era stata adottata quasi subito da una
famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto; lei, però, aveva cancellato tutta quella
confusione chiamando mamma e papà coloro che si Erano prestati ad aiutarla a
dimenticare momenti di un tragitto irto, spigoloso, che non le sarebbe stato
facile superare. Si era dedicata col cuore pieno di gratitudine ai suoi
genitori adottivi, che ha stimato e cui ha voluto bene sempre, anche dopo la
loro morte. Anch’io ero grato ai miei genitori, che avevano contribuito a spianare quel cammino in salita, sin da quando s’inizia a percorrerlo. Se
c’è una cosa al di sopra della carità è quella di creare uno spiraglio di
felicità; in questo modo si farà felice un’anima che da sola non potrà mai
comprare un affetto. L’amore e l’affetto, infatti, sono sentimenti che non si
possono comprare, ma devono essere donati.
Tutta la mia vita privata divenne di dominio pubblico. Quel fatto di
cronaca, che per tanti anni era stato archiviato, ma che affiorava sempre nei
ricordi, diveniva parte integrante della quotidianità, come in una valle che
mai vide il sole. La differenza tra sogno e realtà è una sola: la realtà la devi
vivere, mentre il sogno viene trafitto dai raggi mattutini del sole...
Per affrontare il nuovo giorno si trascinano negli occhi i ricordi del
passato, spesso interrotti dalle lacerazioni avvenute nel corso della vita.
Ogni volta che si trova davanti ad un incrocio, ognuno intraprende una strada
con la speranza che non sia un vicolo cieco, per continuare a vivere da dove la
vita si era interrotta, annotando nell’agenda passato e presente, che sommati
formano la vita stessa, alla ricerca di risposte che a volte risultano
insoddisfacenti.
Anche per i miei fratelli l’ingresso nella vita si era rivelato nient’altro
che un crudele scherzo del destino. Mio fratello Totuccio, mia sorella Cettina
ed io eravamo stati catapultati su quel palcoscenico per interpretare una parte
che non avremmo voluto recitare: una parte difficile, un cammino stentato con
la scomparsa del sorriso che contraddistingue la spensieratezza dell’infanzia.
Altrettanto duri si prospettavano gli anni a venire: solo lacrime avremmo
versato su volti provati. E, senza saperlo, si diviene eroi dell’esistenza,
senza per altro distruggere il passato che è testimone di amarezze,
conservandone il ricordo a tutt’oggi.
Castroreale oggi
Stretto di Messina
Capitolo 4
Il protagonista: ero
sempre io
Io ero quella creatura che andava arrampicandosi sulle montagne più
impensate, nei luoghi che furono la culla per il raggiungimento dell’oggi,
chiedendomi se l’ieri poteva mutare l’attuale che trascina incorreggibile il
passato. Fermo il tempo, sfogliando l’esistenza sino al momento conosciuta e le
strade percorse in questa via di andata. Le immagini fanno da cornice a quello
che capto in tali visioni. Il ricordo dello strascico che impera: il natio,
momento subito perduto insieme all’affetto più caro nel tragico istante che sempre
ricordo; il brefotrofio, manto e raccolta di pianti e di gemiti isolati che
cercano aiuto; il collegio, formazione per chi come me cercava l’assoluto nell’amore del vivere barattato con
quello del sopravvivere; l’esperienza d’una vuota ed astratta immagine con un
biglietto d’ingresso a questo spettacolo del mondo, senza poter chiedere a
nessuno la trama del film in oggetto.
E il protagonista, senza saperlo, ero sempre io, con i primi approcci d’amore
per arricchire l’inutile comparsa terrena, cercando nell’affetto il riempimento
di un vuoto in cui, senza coccole né carezze e baci avevo attraversato quell’età
dell’infanzia delicata entro le mura d’un brefotrofio, in attesa delle braccia
aperte di mamma Grazia e papà Giovanni, che sono stati il manto della
misericordia in quegl’istanti confusi per la mia piccola età in cerca d’aiuto. Essi
tramutarono quel pianto in un sorriso, per affrontare al galoppo la vita;
questo ricordo fa ancora parte dei miei pensieri, essendo il risultato della
vita di oggi.
Avevo raggiunto ciò che cercavo. Risalire alle mie origini mi aveva
lasciato più confuso di prima e con l’amaro in bocca.
Adesso sapevo, ma alcune volte è meglio ignorare per la pace dell’anima. E
proprio per questo era più difficile continuare a studiare, anche se dentro
avevo tanta voglia di conoscere e di scoprire. C’erano molti punti che si
rincorrevano nella mia mente, ai quali non potevo dare risposte. A volte, in
silenzio, pensavo che di certo qualcuno aveva sparlato sul conto di mia madre,
insinuando cose non vere e ci restavo male: mi riusciva difficile credere che
qualche essere umano provasse gusto quando una famiglia veniva decimata. Ma
qualcuno aveva peccato e quel qualcuno era il marito di mia madre, che spiava
dai tetti la povera donna. Era questa visione che rincorrevo in ogni ora del
giorno e della notte. Anche lo sparo, che aveva posto fine alla sua vita,
rimbombava nelle mie orecchie dall’udito affinato da pensieri che mi ferivano,
e in silenzio soffrivo senza poter chiedere aiuto.
Immaginai anche una figura di uomo incatenato che mi additava, dicendo:
«questo non è mio figlio.» La mia mente era oscurata da brutti pensieri e non
era più disposta a concentrarsi sullo studio. A quel punto ci fu un netto
rifiuto: ero troppo giovane per gestire tutte quelle verità pungenti che
facevano da cornice alla mia giovane età. Nel corso del mio andare, condividevo
con i miei genitori quasi tutto, ma alcune cose le tenevo per me, per non dar
loro un dispiacere. Una parte di questi segreti non potevano essere esternati ma
allo stesso tempo ero incapace di affrontarli da solo, a causa della mia inesperienza; inoltre, rifiutavo quegli avvenimenti
a livello dell’inconscio. Ugualmente essi mi erano sempre accanto ed hanno
cambiato la mia vita. Certo, la letteratura e le discipline umanistiche mi
attraevano e mi rimasero dentro. L’amore per la carta stampata mi portò ad
allestire “la biblioteca del povero” nella stanzetta di via Puntale a Camaro,
andando alla ricerca nella spazzatura di qualsiasi genere di libro. A
quell’epoca risale la mia lirica “Fogli di un libro”, nata sulla
circonvallazione di Messina, in memoria di Dante. Finito il primo anno di scuola
media, che non ho mai completato, fui egualmente promosso alla seconda e allora
decisi di non frequentare più: era troppo il peso che portavo dentro e non ce
la facevo.
Subito dopo arrivò dal tribunale la comunicazione che c’era stato un errore
nell’adozione, essendo all’epoca mia madre già in età avanzata, cioè aveva
superato i quarant’anni e per questo motivo l’adozione non era più valida. Con
l’aiuto dei consiglieri di famiglia, compreso il parroco di quella comunità, i
miei genitori decisero di portarmi alla “Città del ragazzo” di Messina, gestita
da don Antonino Trovato detto “padre Nino”.
Qui trovai tante realtà che somigliavano alla mia: ognuno dei ragazzi aveva
una sua storia, che non poteva condividere con nessuno; i loro sguardi non
erano sereni, perché nella loro esistenza mancavano un abbraccio, un bacio ed anche
la presenza di quelle figure importanti che accompagnano nel cammino. A volte
anche un rimprovero è necessario: facendo parte integrante del quotidiano,
matura e aiuta a crescere.
Ma l’ambiente di cui parlo è conosciuto da pochi. Di mattina l’adunata e
l’alzabandiera, poi ognuno ai propri reparti: la falegnameria, la tipografia,
oppure la squadra di elettricisti, come me. Al suono della campanella tutti
nella sala mensa con un enorme tavolo in mezzo: sembrava proprio una famiglia
allargata ma gli occhi, che cercavano invano nel vuoto, la dicevano lunga.
Ci mettevamo tutti in colonna con le nostre posate, pronti per ricevere il
pasto, attendendo non so, forse un miracolo che non si sarebbe mai avverato. Un
enorme quadro in quella sala mensa, che raffigurava don Luigi Sturzo, faceva
capire che c’era qualcuno con alti valori morali che non abbandonava chi era
solo, e in quella figura di uomo rivedevo padre Nino, che aveva raccolto tanti
bambini. Quei ragazzi, però, portavano impressa nei loro volti la mancanza d’affetto e d’amore: carenze che si trasformavano in un boomerang,
facendo tanto male. Non c’era granché da mangiare! Forse eravamo in troppi, forse
mancavano i fondi necessari per sfamarci come si deve. Era peggio di oggi.
Fatto sta che mi era venuta la brillante idea di fare una copia della chiave
della dispensa dell’istituto. Un segreto che condivisi con molti altri. Di
sera, quando tutti andavano a dormire, insieme a un gruppo di amici miei mi
recavo in cucina. Cucinavamo pasta e consumavamo quei formaggi che venivano
tenuti sotto chiave per i signori istitutori, insomma per quelli che
comandavano tutta la baracca e che si rimpinzavano, mentre noi dovevamo accontentarci
di ben poca cosa.
Un giorno venne a trovarci un funzionario, uno di quelli che visitano
questi tristi luoghi – e che mettono un po’ di movimento in tutto l’istituto –
per rendere più accogliente il posto; a loro veniva offerto più di quello che
noi ricevevamo nel corso dell’anno. Forse si preparò della pasta al forno per l’occasione,
non ricordo bene, ma questo non ha molta importanza, fatto sta che la pasta al
forno era solo per lui e per pochi altri.
Non riuscii a trattenermi in quell’occasione: mi alzai in piedi, tenendo in
mano il piatto con la pastina del giorno prima e la mia bocca si aprì e parlò
per me, davanti a quell’eminenza: «Oggi è festa grande, mentre noi continuiamo a
mangiare ’sta schifezza.»
Ciò mi costò la punizione per una settimana.
Ricordo un altro episodio tra i tanti che mi accompagnarono durante la mia
avventura in collegio. Cantavamo in chiesa l’Ave Maria, lo facevamo spesso; quella
volta mi scappò dalla bocca: «Ave, Ave, avemu fami. » Gli amici quel giorno
decisero di farmi uno scherzo mancino. Quando cominciò l’Ave Maria, si
zittirono tutti e si sentì in quel grande spazio solo la mia voce. Il prete per
niente scomposto rispose: «ora, ora manciamu.»
Di solito, dopo l’ora dedicata al pranzo, veniva distribuita la posta;
anche questo era un momento di grande silenzio, in cui i pensieri venivano
trasportati come aquiloni verso il passato. Quelli che ne soffrivano di più
erano coloro che non ricevevano nemmeno un rigo, dove magari ci fosse scritto:
“ti voglio bene”. In questi momenti ti ricordi che esisti e che esiste qualcun
altro che si ricorda di te. Quella lettera non la condividi con nessuno ed in
un angolo appartato la divori e, come un oggetto prezioso, la conservi e la
custodisci gelosamente.
Io non rubai mai nella mia vita ma quella volta, spinto non so da quale
strana forza, sottrassi una lettera indirizzata ad un mio compagno di cordata.
La lessi e piansi e cercai di pensare che quel giorno fosse diverso da ogni
altro. In quel girone dantesco i giorni sembravano tutti uguali, variati solo dalla
pioggia o dal vento, e meno male che quelli luminosi e pieni di sole
primeggiano nella nostra bella Sicilia. Io ero seduto con un bambino di
Castroreale, si chiamava Nino. Il tempo non passava mai e tante volte gettavamo
lo sguardo al di là dei cancelli dove la vita scorreva in tutt’altro modo, pensando alla felicità degli altri. Il mondo visto da
dentro sembrava diverso, assumeva un’altra identità; parlavamo spesso delle
disavventure e delle storie di vita che ci avevano condotto in collegio. Ricordo,
mentre lottavo costantemente per vivere, che anche al di fuori del cancello
c’era un’anima buona che faceva da culla ai miei pensieri; chi fosse quella
persona, che deponeva enormi sacchi colmi per aiutare noi infelici, non si era mai
saputo. Spinto dalla curiosità, non resistetti: volli vedere chi fosse, chi
lasciava quella carità e fuggiva, perché non voleva essere ringraziato. Una
signora dal balconcino di fronte al cancello di servizio, che da qualche tempo
immortalava la scena, alla mia domanda: «chi porta tutto questo ben di Dio?»
rispose che era una bella donna alta, e che tutti i venerdì portava questi
sacchi e poi andava via di fretta. In quei sacchi c’era di tutto: dai vestiti
alle scarpe, dal pan di cena al cioccolato e noi, allungando le mani attraverso
i ferri del cancello, in un batter d’occhio ci impossessavamo di quanto c’era
dato in dono. Volevo solo scoprire chi era questa signora dall’aspetto di
un’attrice e mi nascosi per vedere il suo volto. Quello stesso giorno dopo poco
arrivò con due sacchi pieni, come sempre correndo, uno scialle in testa, ma questa volta un colpo di vento scoprì la sua identità.
Non vi nascondo che rimasi abbagliato e il suo sguardo penetrò nel mio,
mentre la signora, che aveva assistito alla scena dal solito balconcino, la
riconobbe, ed esclamò: «è mamma Assunta da Curcuraci, quella che parla con
Padre Pio nonché figlia spirituale del monaco di Pietrelcina, per tanti un
Santo da venerare.»
La settimana dopo mi feci vedere e la ringraziai per conto dei bambini. Lei
non si scompose per niente e mi chiese come mi chiamavo; dissi il mio nome e
poi per anni non l’ho vista più. Mi lasciò il suo sguardo e il suo sorriso, che
colgo di tanto in tanto per schiacciare qualche pensiero triste.
Intanto, il tempo camminava inesorabile: eravamo alle porte del 1959. Io
avevo tredici anni e un altro colpo di scena si registrò sul mio andare
incontro alla vita. Mentre dormivo profondamente, fui colto da un attacco di
epilessia, come venne diagnosticato dai medici dell’ospedale “Piemonte” di
Messina, dove ero stato ricoverato. Ma la cosa più strana fu quando sulla
parete vidi una foto di Padre Pio; non capivo chi l’avesse messa ma un
ricoverato mi disse che, mentre dormivo, quel pomeriggio era venuta una elegante
signora la quale mi aveva accarezzato, mi aveva dato un bacio e si era allontanata.
Da questo gesto capii che si trattava di mamma Assunta! Ecco che ancora una
volta le nostre strade si congiungevano.
Il primario chiese a mia madre se fossi per caso caduto quando ero piccolo,
ma lei non seppe rispondere. Mi diedero una cura per la malattia diagnosticata
e mi dimisero. Ritornai dai miei, ma quel focolaio ancora persisteva; mi
affidai allora solo alla volontà di Dio. Col tempo si verificò che il primario
aveva avuto ragione: la causa fu la caduta nel momento in cui mia madre biologica
era stata uccisa. Dopo lo sparo, mia madre morente mi aveva trascinato con sé. Avevo
un mese e tre giorni. La caduta ancora trasmetteva quelle tracce, le cui crisi
mi accompagnarono per tanti, lunghissimi anni.
Tanti bambini hanno sofferto, senza poter saggiare un affetto. Avevo un
vantaggio rispetto agli altri: il sabato e la domenica li passavo con i miei
genitori adottivi, quindi avevo un punto di riferimento che altri non avevano.
Del collegio ricordo tante cose, ma una tra tutte, che non dimenticherò mai, fu
questa: un ragazzo della mia età, menomato a una gamba, rimaneva sempre
scartato per l’adozione o per l’affiliazione in una famiglia. Un giorno eravamo
tutti in fila nello spiazzale. Io naturalmente ero dietro, perché avevo già
trovato una famiglia, mentre coloro che erano in lizza per l’adozione erano
tutti avanti, come si espone qualcosa da vendere ad un pubblico esigente. Arrivò
sul piazzale un enorme macchinone – non so se era guidato dal proprietario o
dall’autista – da cui scese una signora accompagnata dal marito e passò in
rassegna quei poveri infelici messi in mostra; quando arrivarono all’altezza di
Stefano, io da dietro gli assestai una bella spinta che lo fece cadere ai piedi
della donna, la quale esclamò: «voglio questo, perché Dio me lo ha mandato.»
Non potete sapere quale fu la mia gioia! Ci fu l’attesa dei documenti
burocratici e, dopo qualche mese, ci lasciò anche lui per quell’avventura che è
la vita. Poi abbiamo saputo che il genitore adottivo era un medico, che in poco
tempo lo aveva fatto operare a Bologna; l’intervento era riuscito e il ragazzo era
ritornato alla normalità.
Tra le tante storie, ne registrai una che tenni a braccetto, condividendo
con gli altri quei momenti oggettivamente amari, ma che fanno parte del proprio
quadro e della propria cornice. Un giorno arrivò un ragazzino cieco; dissero che
sarebbe rimasto per poco tempo, in quanto l’istituto non era adatto a lui; lo
vidi rannicchiato in un angolo, mi avvicinai chiedendo come si chiamasse e lui
rispose: «Piero.» Cominciai a conversare con lui di tutto ciò che ci circondava
ed egli mi disse che attraverso le mie parole lui vedeva. Ma quella fu una
situazione provvisoria, infatti dopo un paio di giorni fu trasferito in un
istituto per ciechi; ci salutammo e promisi che sarei andato a trovarlo, e così
feci, recandomi da lui tante altre volte. Uscimmo insieme per tre anni; posso
dire che ero appagato dal mio parlare ed anche lui era entusiasta delle mie
illustrazioni della realtà; è stata un’esperienza che non potrò cancellare
dalla mia vita. Una volta andai all’istituto e in portineria c’era una lettera,
scritta per lui da qualcuno, che diceva testualmente: «mi hanno adottato i miei
zii di Bologna, spero d’incontrarti un giorno e grazie per quello che hai fatto
per me, ti abbraccio forte. Piero.» Per me fu come un fulmine a ciel sereno. Da
quel momento persi tutti i contatti con lui e un’altra lacrima gelida si posò
sulle mie guance come per accarezzarmi, lasciando ancora una volta un solco
profondo.
Certo è che su un arto si può intervenire, ma su tante storie vere che ho
sentito in collegio, rimane solo la disperazione. Il finale è per tutti uguale:
ogni cosa ha una nascita ed una morte, ed è questa ultima che trancia il
proseguo, ricordando il trascorso. In questo istituto rimasi tre anni. Mi
avevano aggregato come aiuto elettricista del collegio ad un tecnico del Comune
di Messina dall’aspetto sportivo che nelle ore libere si dedicava al collegio;
per me era come un padre, tante volte m’invitava a casa sua, che era vicina al plesso
collegiale. Figuratevi che in mezzo a tutto questo trambusto mi accorsi di
avere anch’io un cuore, m’innamorai – si fa per dire – di una suora che avevo
sempre visto con gli abiti talari e mai ne avevo visto i capelli. La parola
“amore” era troppo grossa per me: si trattava di qualcosa che si avvicinava di
più alla ricerca dell’amore platonico o materno. Scoprii, con gli altri
coetanei, l’esistenza di un sentimento, da cui tante volte gli esseri umani si
fanno trasportare; io ero piccolo, lei una trentenne, ma la suora dopo cinque
mesi fu trasferita. Avevo saggiato un momento di felicità che rimane solo nei
miei ricordi e che difficilmente perderò; si chiamava Maria! Questo nome è
sempre presente nel cammino che mi accompagna in ogni dove e mi diviene subito familiare e dolcissimo a pronunziare. Incominciai a
scrivere le prime poesie in quei momenti del calendario della vita, tra le
quali: “Ai miei compagni di collegio”,
“La preghiera”, “Un ricordo lontano”, “Il mio paese” e altre.
Era questo il modo di colloquiare con me stesso, ponendomi domande e
dandomi risposte, le quali non sempre chiarivano quei perché, che rimanevano
privi di significato; allora mi rannicchiavo dentro la mia solitudine che ormai
era divenuta la mia compagna abituale. Uscito dal collegio, facendo tesoro di
quella esperienza collegiale da elettricista, trovai un lavoro che mi permise di avere il
biglietto di entrata in questa società robotizzata. Figuratevi che, per
attraversare un incrocio con il semaforo, la prima volta mi misi a piangere,
perché quel mondo era stato sempre visto da dietro i cancelli, quindi dovevo
affrontare una verità lontana dalle mie abitudini. Andavo a lavorare in via
Croce Rossa, vicino Mare Grosso, dove c’era una fabbrica di lampadari; il
datore di lavoro mi prese a ben volere. Si chiamava Salvatore. Ricordo i suoi
capelli brizzolati e la voce chiara per impartire gli ordini su quanto
bisognava fare. Egli, dandomi tanta fiducia, mi consegnò le chiavi dei tre
negozi, che puntualmente tutte le mattine aprivo, per mettere in mostra le
vetrine. Rimasi con questa ditta per ben tre anni e devo dire che mi volevano
tutti un gran bene; moltissime volte ero invitato a pranzo con i suoi familiari
e ciò mi gratificava, riempiendo una parte delle mie grigie giornate. Ma volli
provare un altro lavoro, quello dell’elettronica. Fui assunto da un ingegnere
di via dei Mille a Messina. Il tempo scorreva e, pur essendo tanto impegnato nel
lavoro, non riuscivo a dimenticare il passato che come un’ombra si proiettava
sempre sul mio presente, standomi accanto e divorandomi.

Un funzionario, in visita ufficiale, accompagnato all’uscita da padre Nino
tra due file di bambini, ospiti dell’istituto. Anno 1958
Capitolo 5
Incontro con gli zii
Salto di palo in frasca in questa storia che è la mia vita.
Adesso ricordo un incontro con gli zii e ricordo dei giovanissimi ragazzi, mio fratello e mia sorella, e poi rivedo gli zii Salvatore, Nino e
Mela. Li conobbi attraverso un amico che era un tecnico della marina militare,
che faceva delle riparazioni di televisori e radio ed aveva dei clienti a
Castroreale. Un giorno, insieme ai miei genitori, combinammo un incontro con
gli zii: era la prima volta che vedevo quei volti che mi parlavano della mia
vera identità. Mi mostrarono e poi consegnarono una foto di mia madre che
ancora conservo con amore. Nessuno parlò di mio padre, come fosse un tabù da
tenere ben nascosto. In quell’attimo rividi come in un sogno la famiglia e il
passato – stavolta non era un sogno ma la realtà inseguita per anni. Non
parlammo di grossi argomenti perché ogni parola ci trascinava alle lacrime e
quelle dovevamo evitare, se possibile. Ma nel contempo gli occhi non mentivano,
divenivano lucidi anche senza parlare. In quella casa c’era ancora odore del
passato: la credenza riposta nello stanzino non aveva parole, ma raccontava
intere esistenze; in un comodino trovai un romanzo con su la scritta “Maria
Russo”. Mi chiesi se quello fosse stato l’ultimo che mia madre avesse letto;
c’erano tanti piccoli ricordi che non avevo vissuto eppure facevano parte di
me.
Guardavo quelle mura, quelle strade che erano rimaste intatte rispetto a
quando lei era ancora in vita. Finito di pranzare, chiesi a mio zio Nino quale
fosse la casa di mia madre e lui mi accompagnò. Guardai tutti i minimi
particolari alla ricerca di non so che cosa, catalogando tempi e luoghi in una
visione del tutto nuova, ma che nello stesso tempo mi trasportava in quel
passato del non ricordo. Furono momenti indimenticabili impressi nella mia
mente, la quale stava costruendo quel mosaico che mai avevo visto, condividendo
con lo stesso attimi scomparsi, accorgendomi che io esistevo.
Parlammo di mio fratello, che in quel momento era capitano di lungo corso e
si trovava imbarcato sulla nave “Sibilla”, ma che entro qualche mese sarebbe
dovuto tornare a Messina. Credetemi, non vedevo l’ora di abbracciare il sangue del
mio sangue. Quel momento arrivò: lui vestito da militare era in mezzo a tanta
gente, eppure dopo solo uno sguardo e un cenno ci siamo abbracciati. Questo fu
il primo incontro con mio fratello, il primo pezzo dell’intarsio di una storia
antica ed un passo verso un ricongiungimento, per ricomporre i pezzi di quel
mosaico. Accompagnati dal prete di Castroreale, che faceva da filo conduttore
in questa difficile situazione, ci mettemmo in contatto con i genitori di mia
sorella: avvenne anche l’incontro con lei. A quel tempo era già diplomata in
pianoforte. Giunti a casa sua, qualche lacrima naturalmente fu inevitabile. Poi
le domande sorgevano da sole. Tutte le attenzioni erano per me, che ero il più
piccolo di una famiglia ritrovata ma priva del sostegno di una mamma. Dopo aver
bevuto insieme una bibita, rimandammo l’incontro a un pranzo da consumare in un
locale di Milazzo in data da destinarsi. Mia sorella ci fece ascoltare qualcosa
al pianoforte. Fu così che vidi quei volti dopo tanti anni per la prima volta;
non ricordavo niente del prima: ero un esserino troppo piccolo quando il mondo
si era oscurato, lasciandomi in balia delle ombre. Lasciammo nostra sorella fra
quelle mura amiche che l’avevano vista crescere: ormai quella era la sua
famiglia.
Approfittando della presenza di mio fratello, fummo invitati dagli zii di
Castroreale a pranzo. Per me fu un avvenimento storico e insieme ai miei
genitori ci avviammo verso l’abitazione degli zii. Giunto alla meta, scrutai
quelle mura per leggere ancora una volta il passato. Immortalai ogni cosa alla
ricerca di qualche altro ricordo. In quella casa avevo trovato qualcosa
d’inspiegabile che rincorrevo da tempo: i luoghi dove affondavano i sogni e dove la realtà
crudele mi consegnava gli anni ancora da vivere. Ci salutammo e fissai un
appuntamento con mio fratello a Messina, a casa mia. Mi portò con lui a
scorrazzare nella città peloritana. Prendemmo un gelato ed io mi sentivo un
principe uscito da un fumetto, anche se non avevo il cavallo bianco. In
quell’occasione mio fratello rimase soltanto un paio di giorni, perché doveva
rientrare a Genova e partire per Salonicco. Ci scambiammo delle foto. Qualcuna scattata
insieme. Con questi freschi momenti passati in un clima diverso dal solito,
allontanai per una volta le ombre. Poi, la vita andò avanti.
Mi sentivo più protetto, non più solo, poiché avevo quel punto di
riferimento che nella vita serve per comunicare i malumori, i pianti, ed anche
le gioie che fanno parte del nostro esistere; anch’io potevo dire: “mio
fratello”, “mia sorella” che sino a quel momento erano state solo parole pronunciate
dagli altri, mentre io le potevo proferire soltanto in sogno. Parlammo poco di
nostra madre; tutte le volte che incominciavo il discorso, mio fratello con il
volto afflitto mi diceva: «facciamola riposare in pace.» Io capivo il suo stato
d’animo: le immagini gli affioravano alla mente che conservava quei bagliori,
come il negativo d’una foto, e che in ogni discorso riesumavano il vissuto
della sua tenera età. Lo capivo benissimo: cercava di allontanare dal ricordo quelle
immagini orribili. Il dimenticare faceva parte integrante del continuare a
vivere, pur tenendo dentro un grumo che ognuno di noi ancora porta con sé. Avevo
compiuto da poco quattordici anni. In una festicciola, nella contrada di
Camaro, avevo adocchiato una bambina con il corpo già formato da donna e incominciai ad avere qualche
batticuore. Ma si sa come vanno queste cose: nascono e muoiono nel giro di un
battito di ciglia, senza farci capire in fondo il vero significato di quei
sentimenti che lasciano qualche ferita che col tempo si rimargina, dedicando
alla fanciulla alcuni versetti dettati da quel primo istante che come un
pennacchio di fumo se ne va nei cieli infiniti senza traccia del breve incontro
vissuto.
La ragazza in questione si chiamava Giusy, aveva i capelli biondi, di un
biondo ossigenato, con quel fisico che richiamava le attenzioni, non soltanto
le mie, ed avevo paura di perderla.
Intanto, era nata in me la passione per il ciclismo, che mi vide gareggiare
sotto falso nome, perché i miei genitori non mi davano il consenso perché
temevano per la mia incolumità. Vinsi diverse gare ed avevo pure degli
estimatori che mi sostenevano e incoraggiavano in questo ulteriore percorso della
mia vita. Mi sentivo un campione quando valicavo per primo il traguardo,
inneggiando al cielo con le braccia in segno di vittoria, la fatica stampata
sul volto e quel trofeo appena vinto che mi dava la carica per continuare nelle
mie imprese.
Gli anni scorrevano e giunse pure il momento della cresima: per quanto lo
desiderassi non ho trovato una foto che immortalava quegli istanti, ma ricordo
che mia madre mi fece un vestito su misura: sembravo un personaggio uscito dal
fotogramma di un film. Il mio padrino di cresima si chiamava Nino, abitava in
quella via Puntale vicino a casa mia e tantissime volte mi chiamava,
invitandomi a stare attento alle amicizie che coltivavo.
Per l’occasione fu allestita una tavolata con tutti i familiari e gli
amici. In quel momento mi avvicinavo un po’ di più a Dio. Qualche regalo
iniziava ad arricchire una bacheca ancora vuota: piccole cose che avevano un
gran significato perché regalate da persone che mi volevano bene; così
allontanavo quel freddo che in determinati momenti mi covava dentro e congelava
anche il cuore.
Scorrono gli anni come un fiume in piena che trascina tutto nelle strade
che mi hanno visto protagonista, in quelle piazze dove, attorniato da tanta
gente, liberavo qualche verso riconosciuto dagli applausi che facevano emergere
nei miei lineamenti qualche timido sorriso; magari recitavo alcuni versi anche
in vernacolo siciliano, come “A bedda vita”, o “U travagghiu”, per porgere agli
amici qualcosa che ricordasse la cultura degli avi. Tra il lavoro e il mio
impegno per lo scrivere, riuscivo a comporre quei versi giovanili che accompagnavano
il mio crescere, dipingendo a parole quelle strade battute velocemente verso il
futuro.
Carmelo con il fratello Totuccio. Messina. Anno 1963
Capitolo 6
L’incontro con
Quasimodo, Montale e Ungaretti
Una sera, arrivato a casa dal lavoro, mia madre m’informò che il prete
aveva ricevuto dal direttore del collegio una telefonata, per dirmi che dovevo
ritirare una lettera proveniente da Roma. Non sapevo di cosa si trattasse. Nell’intervallo
di lavoro feci una capatina alla “Città del Ragazzo” dove mi accolse il capo
istitutore, professor Anton Maria Vito Todaro, che aveva preso a cuore quasi
tutte le storie dei ragazzi del collegio e in più amava la poesia. Con un
sorriso e un abbraccio mi comunicò che ero stato selezionato per la finale ad
Amburgo con la poesia “Fogli d’un libro”. Il professore Todaro contento lesse
la lettera, la quale recitava testualmente che dovevo presentarmi in una sala dell’EUR
a Roma, per contattare gli addetti ai lavori. Fu in quell’occasione che conobbi
tre grandi della letteratura italiana e mondiale, i premi Nobel: Quasimodo,
Montale e il mancato Nobel Ungaretti. Ricordo che ero seduto in prima fila
quando dagli altoparlanti fu scandito il mio nome con la dicitura che mi fece venire
la pelle d’oca: “dalla Sicilia Carmelo Billè”. Prontamente mi alzai e mi avviai
sul palco; mi venne incontro il siciliano Salvatore Quasimodo che con una
stretta di mano mi sussurrò all’orecchio in puro dialetto siciliano: «di unni sì?»
«Di Missina» risposi.
Con un profondo sospiro continuò: «mi conusci ammia? Sugnu Sabbaturi
Quasimudu.»
Io in quel momento mi sentivo frastornato e non capivo che era un momento
storico della mia vita; recitai la suddetta poesia con un consenso di applausi,
o per abitudine, o perché la lirica era piaciuta. La commissione preposta mi diede
un biglietto d’aereo per raggiungere Amburgo; il Nobel Quasimodo mi dedicò
qualche parola insieme a Montale ed a Ungaretti. Ricordo Quasimodo che
aggiunse: «devi essere come la goccia d’acqua al marmo, prima o poi lo perfora »,
dandomi un biglietto da consegnare al Rettore dell’Università, Salvatore
Pugliatti, suo carissimo amico di quando trascorreva i suoi giorni a Messina.
Il biglietto d’aereo era per la tratta Reggio Calabria-Roma, Roma- Amburgo,
prenotato dal Ministero della Cultura dello Stato Italiano.
Ritornato a Messina, tutti volevano sapere come era andata; lo stesso
Todaro venne a trovarmi a Camaro, dove mio padre gli offrì un bicchierino di
amarena fatta con le sue mani.
Nel frattempo nella sala allestita all’EUR di Roma, avevo conosciuto un
responsabile del circolo culturale “Trilussa”, che m’invitò ad una riunione
culturale che si teneva ai Parioli presso un componente del circolo,
spiegandomi che questi incontri venivano cadenzati senza un vero programma culturale,
soltanto allo scopo di uno scambio di idee, anche semplicemente durante la
consumazione di un caffè. Ognuno degli intervenuti aveva libera parola per dare
un contributo all’iniziativa con qualche lirica oppure con un’introduzione sul
tema del momento.
Io accettai, non sapendo bene come fare dal punto di vista finanziario,
perché il biglietto costava all’incirca sessantamila lire, che non sapevo dove
prendere; ma incoraggiato dall’ingegnere dove lavoravo, esaudii questo mio
desiderio. Il progetto mi era piaciuto tanto che in un’ora o poco più da Reggio
Calabria ero a Roma. Fu quella un’occasione che mi diede l’opportunità di
vedere lo stretto di Messina dall’alto; la sensazione che ebbi fu di
meraviglia. Credetemi, sembra un grande fiume che divide le due sponde di
Sicilia e Calabria! Questo spettacolo mi affascinò tanto che attraversai lo Stretto
per due volte, incamerando così anche questa nuova esperienza. Fui ai Parioli
in un salotto antico della Roma bene, dove i soffitti dipinti e le pareti
intagliate da un mosaico ricordavano le scenografie dei film romani. Ricordo
che il discorso fu imperniato sul fenomeno giovanile, in merito al quale non
avevo alcuna preparazione, ma svicolai facendo entrare delicatamente i giovani
della mia terra che, alla ricerca di un lavoro, correvano tutti in Continente o
all’estero, inseguendo la laurea e abbandonando quelle nostre risorse primarie
che erano, ed ancora sono, l’agricoltura e la pesca. Rilevai che lo Stato su
questi problemi era assente, e aggiunsi pure un mio motto che piacque al
pubblico: “In Italia ci sono pochi pensatori e quei pochi fanno di tutto per
non far pensare gli altri”. Queste parole furono accolte dai presenti con una
manciata di applausi; poi lessi una mia lirica dal titolo: “Ricordo d’uno scolaro”.
Anche questa suscitò il consenso di tutti, e mi fu chiesto se fossi siciliano.
Non risposi con le parole ma solo con un gesto accompagnato da un sorriso.
Lasciai parlare gli altri, facendo tesoro di quanto dicevano sui giovani; qualcuno
dei presenti annuiva, disse che bisognava fare come in Inghilterra: creare dei college che preparino i
giovani, rendendoli autosufficienti nel mondo del lavoro. Questa fu
un’esperienza che, aggiunta a quella della mia vita passata, arricchì il mio
povero bagaglio culturale. Feci ritorno nella mia città e, puntuale, il lunedì
seguente ero sul posto di lavoro; l’ingegnere mi chiese com’era andata. Raccontai
per sommi capi quanto avevo vissuto e riprendemmo il lavoro dopo una sua frase
che mi colpì: «tu a Messina sei sprecato.»
La mia seconda partenza mi portò nelle vicinanze di Porta Pia, presso
l’abitazione di un professore dell’Università “La Sapienza” di Roma. Tra un
caffè e l’altro si parlò del Nobel Eugenio Montale ed esattamente della
raccolta “Ossi di seppia”. Anche questa volta superai la prova. Nel mio
intervento dicevo che lo scrivere può essere dettato dalla conoscenza culturale
oppure da un’analisi dettagliata dei passaggi della vita, esaminati ed espressi
in due modi diversi: i primi vengono descritti puntualmente nel loro evolversi,
mentre i secondi, dettati dall’animo, correggono il senso del fine, portando a
quelle analisi che conducono all’asse portante di ogni esperienza di vita, di
cui si deve accettare il corso senza appelli, proprio come un film che scorre
più volte senza poterne correggere la trama o cambiarne la sequenza, cosa che
indispone, facendo arrabbiare. Lessi una lirica in dialetto siciliano dal
titolo “A bedda vita” che puntualmente dovetti tradurre per i presenti che non
capivano le parole. Durante il mio ultimo salotto di Roma dissi scherzosamente:
«se fosse stata Rometta avrei continuato il salotto, ma siccome è Roma a ben
sentirci e a presto.»
Mentre si avvicinava la data di Amburgo, mi resi conto che avevo già
diciannove anni, e di lì a poco ne avrei compiuto venti. Nello stesso periodo
arrivò anche la cartolina precetto per il servizio militare. Nel gennaio
seguente avrei dovuto presentarmi a Orvieto con destinazione il C.A.R. Tra me e
me commentai: «come scorre veloce questo tempo e quant’è fugace!»
Capitolo 7
Suona per me l’inno di
Mameli ad Amburgo
Arrivò il tanto atteso giorno della partenza per Amburgo; ero minorenne – a
quell’epoca si diventava maggiorenni a ventuno anni – e come accompagnatore fu
incaricato un funzionario della prefettura di Messina, che per l’occasione mi
accompagnò per tutta la tratta Reggio Calabria-Roma, Roma-Amburgo. Durante il
tragitto mi chiese più volte se fossi emozionato e se fossi contento; mi fece
ripetere quella poesia più di cinquanta volte. Arrivammo a Roma, città che nel
corso dei secoli aveva registrato chissà quanti turisti. Una metropoli a
livello mondiale che con i suoi monumenti ricchi di storia conservava le orme del passato. A Fiumicino, dovendo
attendere circa un’ora per la coincidenza, entrammo in un bar dell’aeroporto e,
mentre consumavamo un cornetto e un caffè, a un tratto venne scandito il mio
nome dagli altoparlanti: «Il sig. Carmelo Billè è pregato di recarsi presso
l’ufficio informazioni.»
Ci guardammo in faccia io e il funzionario, che spontaneamente disse in
dialetto siciliano: «Puru ccà ti conusciunu » e ci avviammo presso l’ufficio
indicato. Comunicai il mio nome alla signorina addetta, che sfoggiava una
minigonna da brivido – ma questo non era il momento per simili riflessioni – e
che mi indicò un uomo dall’apparenza intellettuale e me lo presentò: aveva un
nome straniero e in un italiano stentato disse che anche lui era diretto ad
Amburgo.
Lanciai uno sguardo al mio accompagnatore, mentre facevamo le
presentazioni. Proveniva da Bolzano e insieme dovevamo rappresentare l’Italia. Ci
fu la stretta di mano; lui prese un bicchierino che già dall’odore mi faceva
venire il voltastomaco e di lì a poco ci imbarcammo su un aereo dell’Alitalia.
Al decollo vidi una scena molto bella: Roma, città storica, era sotto di noi:
un incanto della natura.
In meno di un’ora fummo ad Amburgo; qua la scena cambiava radicalmente,
sembrava che fossimo arrivati in un incantevole posto da fiaba: quei tetti dei
palazzi aguzzi che finivano a piramide mi davano l’impressione d’essere
arrivato nel paese delle meraviglie. C’era un via vai continuo di mezzi, ma per
lo più erano le bici che inondavano il traffico. Un incaricato venne a
prenderci sbandierando un cartello scritto in italiano: “I rappresentanti dell’Italia
sono pregati di seguirmi”.
Ci presentammo al signore che aveva il cartello e in meno di mezz’ora
eravamo arrivati in un grande plesso che assomigliava al tribunale di Messina.
Entrammo e all’interno vidi vari saloni divisi da vetrate con tante poltrone
vuote disposte come in un cinema di prima categoria, cioè in discesa, per dare
la possibilità a quelli seduti dietro di vedere quanto succedeva in platea.
Eravamo giunti con un paio d’ore di anticipo rispetto all’orario ed io per
l’appetito sentivo un languore che neanche mi permetteva di pensare! Nel
frattempo ci chiesero le carte d’identità e le trattennero per tutta la durata
della nostra permanenza, rilasciandoci in cambio un tesserino scritto in
tedesco che il nostro amico, il professore di Bolzano, tradusse. Il biglietto
diceva che gli italiani erano ospiti della rassegna. In quelle ore di attesa
riuscimmo a mangiare un panino con qualcosa di misterioso dentro: a me sembrava
che si trattasse di ceci passati misti a un hamburger, ma la fame me lo fece
ingoiare tutto in un boccone. Bevemmo anche una birra. Scoprii con meraviglia
che in quel luogo la birra si vendeva come da noi l’acqua minerale. Ne bevvi un
poco e lasciai l’altra sul tavolino. L’altro rappresentante dell’Italia prese
la mia bottiglia e la finì, facendomi capire che era un peccato lasciarla. Ci
avviammo alla manifestazione; i nostri posti erano in prima fila con le varie
rappresentanze europee, poi sentii la voce ovattata del presentatore che ci
invitava a indossare le cuffie per la traduzione istantanea; le prendemmo e,
mentre lui parlava in tedesco, una voce me lo traduceva in italiano. Che
sensazione bellissima! Tutto quel parlare tedesco mi giungeva nuovo; quando arrivò
il turno dell’Italia, i nostri nomi vennero scanditi in un italiano non
perfetto. Salii sul palco insieme ad un professore e sentii l’inno di Mameli suonato
per noi che rappresentavamo l’Italia.
Finalmente toccò a me! Una traduttrice tedesca volle sapere da quale posto
dell’Italia provenissi. «Dalla Sicilia» risposi. A quelle parole il suo viso
s’illuminò sussurrando a bassa voce: «Roma, Firenze, Napoli, Taormina, isole
Eolie, ci sono stata. È bella Italy.» Fu un complimento che mi fece congelare
il sangue, ma soprattutto fu il nostro inno nazionale ad emozionarmi, io che
l’avevo solo ascoltato in un incontro di boxe e quando era stato suonato per qualche
medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi! Credetemi, per un attimo percepii brividi
di freddo come se la temperatura del corpo arrivasse ai quarantuno gradi. Lessi
quella poesia, “Fogli d’un libro”, che avevo scritto a Messina sulla circonvallazione,
mentre i relatori parlavano del fiorentino Dante come di un super uomo, descrivendo
quei momenti della letteratura italiana. Lessi o recitai (non so cosa avvenne
veramente in quel momento) quella lirica, che ebbe un consenso unanime di pubblico e di critica. La sala fu invasa da fotocopie tradotte in sette
lingue ed ebbi i complimenti della commissione. Mi spiegarono poi che non c’era
un premio e mi diedero una targa che testimoniava la mia partecipazione ad
Amburgo.
Fu un momento storico del mio viaggio. Capii in quel frangente che questa
era l’altra faccia della medaglia: la vita non finiva dietro l’angolo di casa e
non era formata da solo dolore.
Quando ritornai nella mia città, fui chiamato dal sindaco che mi fece i
complimenti innanzi alla Giunta comunale, decantando le mie qualità letterarie
e aggiungendo che era fiero di me, elargendomi una medaglia al ricordo di
questo incontro.
Subito dopo ripresi il mio tran tran quotidiano. Era successo tutto in un
attimo, come quando il tempo sembra addormentato e d’un tratto tutto intorno a
noi si risveglia. Intanto, nella città dello stretto si percepiva la necessità di
confrontare la cultura di vari personaggi, formando dei salotti letterari. Fui
invitato, e contento ne feci parte. Preparavo un cartaceo, sistemato in una
carpetta vecchio stile, e mi avviavo in questo salotto dove leggevo alcune mie
liriche e puntualmente ricevevo critiche ed elogi per il linguaggio e per il
modo di porgerle. A quegli appuntamenti, che erano cadenzati il sabato o la
domenica, non mancavo mai: era divenuto un rito, anzi un bisogno per sfogare
attraverso gli scritti i miei drammi e cercare di allontanare le mie pene del
quotidiano.
Lavoravo a quell’epoca presso uno studio legale, facendo il messo tra
tribunale e l’ufficio stesso. Fu questa una esperienza unica: preparavo le
arringhe per le cause in corso, oppure consegnavo le notifiche al domicilio
prescritto. In questo nuovo lavoro, soprattutto conobbi alcune sfaccettature
della vita che sino a quel momento non avevo conosciuto, ascoltando diversi
episodi che finivano nelle aule del tribunale.
Tra i tanti ricordi in particolare uno ha lasciato un segno che ancora mi
porto dietro. Un bambino nell’età dell’apprendistato, per non far gravare tutto
il peso del mantenimento sulla sua famiglia numerosa, nelle ore pomeridiane
faceva il barista, consegnando i caffè o le granite a domicilio, ricevendo in
cambio delle mance oltre all’illusoria paghetta che gli veniva mantenuta dal
gestore del locale. Nel suo viso di bambino, che a quell’età invece di giocare
era stato responsabilizzato a divenire uomo prima del tempo, si vedeva la
realizzazione di un traguardo raggiunto. Ma un pomeriggio maledetto il bambino
fu investito da una macchina presso il palazzo del Governo, dove si erige la statua di Nettuno
rivolta verso la prefettura. Si arrivò a una causa che vedeva quel bimbo sulla
sedia a rotelle, mentre nel contempo l’investitore dichiarava di non averlo
investito sulle strisce pedonali ma fuori dalle stesse. Mi commossi così tanto
nel vedere quel bambino sulla sedia a rotelle che volli partecipare a tutte le
udienze del caso. Un mattino di sole di un giorno comune, in cui il tempo si
trascinava nonostante gli affanni, era stata fissata la decisione dei giudici
riguardo a quell’episodio. Io ero seduto in mezzo al pubblico quando il giudice
si pronunciò dicendo che l’investitore veniva assolto per insufficienza di
prove. A quel punto mi alzai in piedi in mezzo ad una marea di gente, scandendo
a lettere cubitali che io avevo le prove. Il giudice mi chiamò a deporre tra lo
stupore dei presenti e soprattutto dell’avvocato difensore, quindi mi invitò a
parlare. Io, che avevo seguito il caso in ufficio, dissi solo quattro parole:
al palazzo del Governo c’era sempre una guardia, di giorno e di notte. Bastava
quindi vedere data, ora, giorno e mese per avere un testimone su quanto
accaduto. Il giudice annullò il verdetto, dicendo che la causa veniva
aggiornata e rimandava la decisione in data da destinarsi. Il padre del bambino
rimase sbigottito insieme agli avvocati, e non sapeva come ringraziarmi per
quanto avevo detto; nell’udienza successiva il bambino vinse la causa con un
risarcimento del danno. In seguito il padre del ragazzino investì quel denaro,
facendolo fruttare. Quindi portò il bambino a Bologna per farlo operare e il
piccolo riacquistò l’uso degli arti.
Per una volta un innocente aveva vinto sul dispotismo dei forti. Mi
ritrovai quel ragazzino a Camaro, dietro la mia porta: voleva darmi un regalo
per quello che avevo fatto. Io risposi che accettavo soltanto un caffè per non
dimenticare quella che era stata per me una lezione di vita; lo abbracciai, rammentandogli
che la vita è dura e che lui sembrava più grande dell’età che aveva. Lo salutai
e gli augurai buona fortuna.
Carmelo circa diciannovenne legge un proprio testo
in versi davanti a quattro cultori della poesia in un circolo messinese
Capitolo 8
La naia
Mancavano pochi giorni alla mia partenza per il servizio militare, con
destinazione Orvieto. Per i miei genitori fu un colpo al cuore. Non capii come
mai, essendo figlio unico e adottato, dovessi fare il soldato. Forse la
burocrazia non era stata informata? Partii a malincuore. Feci il giro dei
parenti e mi fermai un poco di più da Graziella, che nel frattempo si era fatta
una bella signorina, ed io non me ne ero mai accorto; aveva gli occhi lucidi e
mi disse: «Scrivimi!» Le scrissi qualche lettera, ma non le dissi che le volevo
bene, lo tenni solo per me. Forse era lei la donna della mia vita, ma le volevo
bene come un fratello e fu questo il motivo che mi bloccò. Col tempo le nostre strade
si divisero; oggi rammento con nostalgia quell’incontro e ho tanta rabbia per
non averle detto ciò che sentivo: la mia vita a quel punto avrebbe potuto
essere diversa, forse lei con quel suo abbraccio voleva dirmi tante cose, ma
purtroppo aveva taciuto. Fu l’unico ricordo vero che trascinai per anni e che
conservo tutt’ora, anche se il tempo è trascorso ed è rimasta dentro di me
tanta tenerezza. Ricordo le lacrime dei miei genitori che mi accompagnarono sino
alla stazione di Messina; non vi nascondo che provavo grande amarezza nel
lasciarli soli in un momento in cui avevano tanto bisogno di me. C’era però mia
cugina Concetta che dedicava parte del suo tempo agli zii, con amore. Ero più
tranquillo, perché c’era lei con loro. Arrivai a Orvieto; prima di presentarmi
in Caserma, volli dare uno sguardo alla località che mi ospitava e rimasi
incantato dalla funivia, un mezzo di trasporto che non avevo mai visto prima.
Vidi anche il Duomo, che mi ricordava tanto quello di Milano – anche se questo
sembrava una miniatura rispetto a quello lombardo – poi il pozzo di San
Patrizio; insomma cose che rimangono dentro, arricchendo.
Quando mi presentai in Caserma, io che ero abituato al collegio, paragonai
quella vita a un semplice gioco. Mi consegnarono la divisa con un numero di
matricola e per due mesi rimasi in quella località. Un giorno sentii qualcuno
che mi chiamava.
«Natale, anche tu qui?» Un altro commilitone mi stava chiamando col nome
col quale mi conoscevano a Camaro. Era un amico che aveva appreso dai suoi la
notizia che a Orvieto c’ero pure io. Poi seguì l’incontro con altri amici di Camaro.
Potete immaginare quale fu il nostro stupore nel rivederci tutti e quattro lì.
Uscivamo insieme, andavamo in qualche ristorante o al cinema, insomma una vita
diversa dal cerchio di solitudine nel quale mi ero preparato a trascorrere quel
lasso di tempo.
Si accendevano i ricordi giovanili della nostra Camaro e cercavamo con la
mente quei momenti. Dopo qualche tempo, per ognuno di noi venne l’ora del
trasferimento a un indirizzo diverso. Salutammo le reclute e così finì quell’esperienza.
Trasferito alla Spaccamela di Roma, mi assegnarono al genio pionieri,
reparto fotoelettrico. Finito questo corso – con tante peripezie a volte
volute, altre volte erano loro a cercare me – conobbi Antonia su un autobus
della città. Aveva una minigonna che faceva da cornice alle sue belle gambe che
spiccavano all’occhio del militare in cerca di emozioni. Parlammo un po’ del
più e del meno, poi scesi alla sua fermata per continuare il colloquio
intrapreso e ci incamminammo per quel tratto di strada che conduceva al suo
istituto, dandoci l’appuntamento per la fine delle lezioni. Era una studentessa
proveniente da Colleferro, che dista una cinquantina di chilometri dalla
capitale. Lei si trovava a Roma per motivi di studio e così trascorsi in sua compagnia tutte le
domeniche, se non ero di guardia. Ma dopo venne il momento del trasferimento ad
Udine, anche se nel Friuli rimasi poco. Con la specializzazione che avevo, ero
sempre in giro. Un giorno mi chiamò il capitano, comunicandomi che l’indomani
mattina sarei dovuto andare con gli avieri a Capo Teulada, in Sardegna, per
esercitazioni e avrei dovuto illuminare i bersagli. Da premettere che il mio
nominativo glielo aveva dato il mio sergente, e così l’indomani ci imbarcammo su
un aereo militare che, forse, ricordava la guerra del ’15-’18 e partimmo alla
volta della Sardegna. Giunti a Capo Teulada, si presentò un forte vento che
probabilmente il colonnello Bernacca non aveva preventivato e ci furono dei
problemi per atterrare. Il capitano degli avieri contattò il mio sergente e
decisero che tutti dovevamo indossare il paracadute. Io rimasi a guardare la
scena, mentre gli avieri erano contenti per il lancio, ma tra tutto quel
trambusto non avevo capito che mi dovevo lanciare anch’io; il sergente era
convinto che io già avessi fatto qualche lancio. «Cosa stai dicendo?» chiese.
«Io non mi sono mai lanciato in vita mia!»
«Non ti preoccupare.» Il capitano mi spiegò che, nonostante tanta
resistenza da parte mia, era convinto che ne fossi capace! Questo era il fatto.
«Abbiamo bisogno che tu ti lanci, altrimenti non possiamo fare i tiri.» Dopo
tante spiegazioni mi convinsero ad accettare.
«Tu conta sino a cinquanta e poi tira il laccio del paracadute.» Ma, quando
fui fuori dall’abitacolo dell’aereo, mi ritrovai con il corpo che precipitava
velocemente in caduta libera e subito mi sentii il cuore in gola; iniziai il
mio conteggio e arrivando a dieci o poco più, tirai il laccio. Il paracadute si
aprì quando non doveva. Quel lancio mi portò a circa tre chilometri di distanza
da Capo Teulada e vennero a prendermi con la jeep. L’atterraggio fu fantastico,
anche se rocambolesco; atterrai vicino una mandria di pecore, la mia paura fu
quella di imbattermi in un montone. Il capitano degli avieri mi confidò che per
puro miracolo non ero stato risucchiato dall’aereo, e il responsabile era lui, finendo
col dirmi: «è tutto bene quel che finisce bene, caro siciliano.»
Fatti i tiri, rientrammo ad Udine, lasciando quella terra che ricordava
tanto la mia. Respirando quell’aria intrisa di salsedine e di iodio, salutai la
Sardegna e con lo stesso veicolo arrivammo a Udine e meno male! Un mattino di
un sabato comune, sentii agli altoparlanti dire: «il geniere Carmelo Billè è
atteso in parlatorio.»
Io per la verità non aspettavo nessuno in quel luogo lontano.
Al mio cospetto vidi il padre di Antonia e la cosa mi lasciò di stucco!
«Come mai si trova pure lei a Udine?» gli chiesi. «Antonia è in ospedale, è
stata ricoverata con minacce d’aborto.»
Lo guardai preoccupato, senza poter dire una parola. Quando ne parlai col
capitano, mi diede un permesso di quarantotto ore per raggiungere il “Bambin
Gesù” di Roma. Il padre di Antonia era una persona moderna, ma era sempre suo
padre!
Arrivati a Roma ci accingevamo a varcare il cancello dell’ospedale e una
schiera di suore borbottò sottovoce: «ecco il militare di cui si parla.» Raggiunsi
la stanza del ricovero, mi presentai al cospetto di Antonia e l’abbracciai. Lei
non parlò, io nemmeno, e quel silenzio ci invase come nebbia. Antonia rimase
ancora qualche giorno in ospedale, mentre io ero ospite a casa sua.
Con un certificato rilasciato dal suo medico di famiglia, dove si
specificava che avevo contratto l’influenza, riuscii a rimanere qualche giorno
in più a Roma. Intanto Antonia aveva già avuto l’aborto e dopo una breve
degenza in ospedale la prelevammo io e suo padre, riportandola a Colleferro. Le
mie quarantotto ore di permesso avevano raggiunto le novantasei, ma anche
queste stavano per finire e dovevo rientrare a Udine.
Promisi che sarei passato da lì non appena avrei avuto un altro permesso e
mi allontanai da lei con l’amaro in bocca. Però non avevo fatto i conti con i
progetti che gli altri avevano stabilito per me. Arrivando in Caserma, il
capitano, che era anche lui siciliano, dalle parti di Catania, con quel dialetto
dall’accento cadenzato mi chiese come fosse andata, aggiungendo: «se fosse
capitato dalle nostre parti, ci sarebbe stato il matrimonio riparatore.»
Naturalmente il capitano stava scherzando, perché subito aveva mostrato i denti
in un sorriso, aggiungendo pure: «questa volta ti è andata bene ma stai attento
che non ci sia una seconda volta.»
Il 4 novembre del 1966 ero a Padova per la mostra dell’elettronica ed anche
qua ci fu un altro colpo di scena! Mentre ero insieme ai miei commilitoni in un
cinema della città a guardare un film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, tanto
per essere vicino alla mia Sicilia e al mio dialetto, tutto venne interrotto da
un allarme generale, accompagnato dal suono delle sirene e delle campane. In
sala, dove veniva proiettato il film, si accesero le luci e da un altoparlante annunciarono:
«tutti i militari presenti si devono presentare in prefettura per comunicazioni
urgenti.»
Ci guardammo attorno sbigottiti, pensando subito che eravamo entrati in
guerra, senza sapere né con chi né come; intanto, delle jeep raccoglievano
tutti i militari incontrati per strada e li portavano direttamente in prefettura,
nel cui grande cortile c’era ad attenderci il sindaco di Padova, che ci
illustrò subito quanto era successo; di lì a poco il cortile fu pieno di
militari di ogni appartenenza: marinai, avieri, alpini, polizia, vigili del
fuoco, carabinieri. La voce scandita del prefetto ci informava che una forte alluvione
s’era abbattuta sulla città di Firenze e nei dintorni; a quel punto dipendevamo dal prefetto stesso, che coordinava le emergenze
per la protezione civile e, quindi, smistava i vari corpi di appartenenza per
aiutare le località alluvionate. Io ero il più anziano del Genio Pionieri
presente e mi diedero un grado di emergenza, quindi fui mandato subito nelle
località del Bellunese verso Caorle, San Donà di Piave, Musile di Piave, Amaro.
Partiti alla volta delle località citate, fummo fermati dalla polizia stradale;
io scesi con il lascia-passare, ma il poliziotto mi fece notare che la località
di Caorle era irraggiungibile, non si vedeva più la strada, perché era inondata
da acqua e fango.
Io, che dovevo arrivarci a tutti i costi, mentre i poliziotti guardavano la
scena, salii sul cofano del camion con gli occhi puntati ai pali
dell’illuminazione e, tenendomi ai tergicristalli, con il capo feci cenno di
avanzare piano piano: naturalmente altri camion con le fotoelettriche seguirono
a ruota.
Quando giungemmo sull’altra riva, sentii scandire dalla voce del
poliziotto: «di dove sei?» «Della Sicilia» risposi.
Lui ribatté: «solo un siciliano poteva passare.»
Ci salutò, augurandoci buona fortuna.
In quelle zone trovai tanta acqua e tanto di quel fango che non avevo mai
visto in tutta la mia vita. Ero insieme all’inseparabile amico Mario, col quale
avevo condiviso diverse avventure, vestendo quella divisa che ci qualificava salvatori
della Patria, dando un contributo con questi primi soccorsi agli alluvionati di
quei paesi. Sul luogo del disastro era presente il Ministro della Difesa,
Tremelloni; una sera questi ci trovò al lavoro con le nostre fotoelettriche,
pieni di fango e di acqua, e ci diede cinquantamila lire. Sinceramente io non
avevo nemmeno capito che fosse il Ministro della Difesa ma, quando vidi che
tutti erano scattati sugli attenti dicendo: «comandi, signor Ministro!» rimasi di stucco e mi
comportai di conseguenza. Subito dopo, con la divisa inzuppata di acqua e di
fango, lavata e asciugata alle fotoelettriche, partimmo alla volta di Firenze
che, a prima vista, sembrava Venezia. In alcuni punti il livello dell’acqua superava
il secondo piano e dovevamo muoverci con le zattere o con le barche. Ero arrivato
a Firenze un giorno dopo l’alluvione e vi rimasi più di un mese. In quel
periodo potei apprezzare la simpatia di questa gente operosa, mentre si passavano
i sacchi di terra l’un l’altro per impedire all’Arno di traboccare verso la
città, oppure per salvare un dipinto, o riunirsi dove l’acqua non era arrivata,
per costituire il quartiere generale da dove partivano le istruzioni per poi
arrivare nei posti dove c’era bisogno d’aiuto. È stata un’esperienza unica!
L’allora Ministro della Difesa Tremelloni intestò a noi e a tutte le forze
italiane un diploma di ringraziamento per quanto avevamo fatto a difesa del nostro
territorio, colpito dall’alluvione di quel 4 novembre del 1966. Non potrò
dimenticare un episodio. Mentre stavamo lasciando Firenze, vidi una donna
disperata e in lacrime.
Prima di salire sul camion, chiesi all’autista di aspettare un attimo e mi
avvicinai a lei. «Cosa le è successo?» chiesi, scrutando la sua angoscia. Balbettando
in quel dialetto fiorentino e con un nodo in
gola, riuscì a dirmi che non trovava più sua figlia. Io, che in quell’occasione
ero il più anziano dei militari, quindi capo colonna, invitai tutti i miei
compagni a scendere per cercare la bambina. Qualche attimo dopo, durante le
ricerche, da lontano, sotto la ruota di un camion notai qualcosa, mi avvicinai
e vidi quel corpicino arrotolato su se stesso e tutto pieno di fango. Per un
attimo temetti il peggio, poi il suo respiro mi rassicurò e mi accorsi che
dormiva. La notizia del ritrovamento fece subito eco. Presi in braccio quella
bambina e la portai da sua madre la quale l’abbracciò, stringendola al petto, esclamando:
«Sei la mia bambina!» La signora ci ringraziò. Le strinsi la mano e diedi un
bacio alla piccola che poteva avere non più di tre anni. Eravamo sul punto di
partire, quando la signora mi domandò: «da dove vieni?» «Dalla Sicilia» le
risposi, sporgendomi dal finestrino.
«Grazie» gridò lei e aggiunse: «Giorgio La Pira, Giorgio La Pira!»
Io non capivo il senso di quel nome, poi seppi dal mio capitano che era il
leggendario sindaco di Firenze, stimato e amato dai fiorentini e che era un
siciliano come me.
Firenze durante l’alluvione del 1966. Carmelo partecipa ai soccorsi
L’avventura militare stava giungendo al termine. Ero prossimo al congedo. Una
mattina mi giunse un telegramma con scritto “Giusy è fuggita con un altro”, parole fredde che dicevano tutto. Intanto, avevo
promesso ad Antonia che sarei passato da Colleferro. Avevo già il congedo in
mano, preparai il mio bagaglio e, come da calendario, feci sosta nella
Ciociaria, dove rimasi per tre giorni ospite della sua famiglia. Poi ripartii alla
volta di Messina, dove mi aspettavano i miei genitori e la mia sicilianità mi
richiamava.
Mi riapparivano davanti agli occhi gli stessi luoghi che nel frattempo avevo
lasciato insieme all’età dei giochi: una terra che ha tanta fame di lavoro, in
cui i giovani spesso bruciano i loro sogni ancor prima di averli formulati. Un lavoro
certo, ma come meta finale la creazione d’una famiglia, che non può vivere di
sogni ma di risposte reali in quel contesto sociale. Quel passo a volte viene
fatto troppo in fretta, non avendo la possibilità di programmarlo, perché si è
ancora privi di esperienza, anche se le raccomandazioni di chi ci sta accanto
non mancano.
Probabilmente questo dato di fatto bisogna capirlo da soli, per evitare che
i colori dell’arcobaleno perdano effetto cromatico e, per chi come me ha
rincorso ombre, a guardarlo non vi trovi più un senso. Forse ho costruito
troppi castelli di sabbia che si sono disfatti nel tempo, lasciando dietro solo
rovine che fanno nascere rabbia e sgomento, ma mai resa.
Rimangono negli occhi immagini sfocate, anche se sono le stesse
dell’infanzia: ricordano un fazzoletto che sventola dalla carrozza d’un treno,
come segno di saluto, accompagnato da una lacrima di scoramento per gli affetti
lasciati in quella terra, per andare a cercare un lavoro in un’altra città, senza
mai cancellare dalla mente quelle origini che ti hanno accompagnato nel vivere
di stenti, ma con il capo sempre alto...
Quei momenti duri che si registrano nel nostro meridione sono forse causati
dalla posizione geografica del nostro territorio, e fanno sì che i giovani
arrivino a quarant’anni, senza avere un posto di lavoro. Figuratevi se potranno
percepire la pensione quando saranno arrivati all’età del pensionamento, dal
momento che non lavorarono. Lo scorrere del tempo continua la sua marcia, senza
arrestarsi mai, registrando altresì la lotta continua per sopravvivere in una
dimensione umana che porta dietro le immagini a testimoniare aspetti e momenti
inclusi nella dura storia di vita.
Carmelo in divisa militare, 1966
Carmelo, in branda, mostra il simbolo dei congedanti, 1967
Capitolo 9
L’ardore della
giovinezza
Tornato in Sicilia, notai che tutto era rimasto intatto proprio come
l’avevo lasciato, ma tra i ricordi del passato c’era il presente a pungolarmi e
a volte mi sentivo desolato per non poter realizzare i miei vecchi progetti. Ricominciai
a lavorare, anzi presi pure qualche lavoro per conto mio, inoltrandomi dentro
il misterioso viaggio della vita che riserva sempre sorprese.
Avevo poco più di venti anni con il bisogno di cominciare a pensare
seriamente al mio domani, mentre i sentimenti vagavano come una barca alla
deriva, senza pensare che quei momenti sarebbero sfumati, lasciando solo
l’alone di un ricordo.
Avevo lasciato a Roma un pezzetto di cuore e qualche simpatia locale, mai
però avevo pensato a un legame serio: era stato tutto un fuoco di paglia che
col tempo sarebbe svanito all’orizzonte. Dovevo cancellare ogni cosa con un colpo
di spugna: avevo bisogno di risolvere i tanti problemi presenti e quelli che
avrei incontrato lungo il cammino. Scrissi ad Antonia una lettera, nella quale
la informavo che la mia situazione familiare non mi permetteva più di
allontanarmi da casa. Lei nelle successive lettere insisteva perché io tornassi
a Roma, mi trovassi un lavoro, mentre lei raggiungeva quel sospirato diploma di
ragioniera, ma rifiutai la sua proposta e dopo tante lettere finì quell’intermezzo amoroso. Le
nostre strade si divisero, lasciandomi solo un ricordo simile a un’eco che ogni
tanto mi distoglieva dalla realtà.
I miei genitori stavano invecchiando e gli anni si vedevano tutti, mancava
in loro la lucidità del passato. Io cercavo di aiutarli come potevo: preparavo
da mangiare, spazzavo per terra, rifacevo i letti.
C’era bisogno di una donna in casa e mia cugina Concetta li aiutava per
quanto era possibile. Dopo la mia breve sortita a Roma fui sommerso da tanti concorsi
di poesia nazionali e internazionali; partecipai timidamente a qualcuno, anche
perché non credevo fino in fondo nei concorsi.
Nel 1967 mi giunse un invito dalla casa editrice “Mondo Letterario” di
Milano, che mi annunciava l’uscita entro breve tempo di un’enciclopedia
nazionale di poeti contemporanei.
Io non mi ero mai sentito un poeta; avevo scritto qualcosa perché mi
mancava qualcuno che ascoltasse le mie parole e, piuttosto che dialogare da
solo come fanno i pazzi, avevo preferito imbrattare il foglio bianco con quei
versi che per me erano una sorta di liberazione e un vero senso di
comunicazione, restando fiducioso che qualcuno prima o poi li avrebbe letti.
Trascorsero cinque mesi e il mio nome comparve su quell’antologia
intitolata “Lumen”; andai a Milano alla presentazione
del libro e in quell’occasione fui uno dei più giovani autori, con quindici poesie ed una premessa. I convenuti in sala decisero
unanimemente di applaudirmi in piedi. Penso che quello che li spinse a questo
gesto bellissimo, che mi fece ancora una volta commuovere, fu la premessa del
libro che sensibilizzò l’intera platea. Ero guardato con un occhio diverso,
forse perché venivo dal sud. Tanti uomini illustri venivano da quel sud
martoriato che dava luce alle chiare idee, le quali hanno contribuito molto alla
letteratura nazionale e internazionale, con uomini che hanno tracciato le basi
culturali.
In quegli anni preferivo continuare a dialogare col silenzio nel quale
m’immergevo e scoprivo che le ombre del passato facevano ancora parte del mio
esistere; quelle stesse ombre che ancora adesso rivedo pronte ad inseguirmi. Intanto,
in quel passato non tanto lontano, durante il periodo militare, avevo lasciato
qualche amico. Uno di essi si chiamava Mario, al quale avevo promesso un libro,
anche perché c’era inserita una lirica dedicata a lui. Dopo qualche mese mi
arrivò una lettera da Castellazzo Bormida, in provincia Alessandria. In quella
lettera, il mio vecchio amico mi ringraziava ma aveva anche una richiesta da
farmi. Una sua nipote, che stava preparandosi per la laurea in Lettere moderne,
desiderava inserirmi nella sua tesi. La ragazza abitava a Viterbo e sarei stato
contattato per partecipare all’evento. Era l’anno 1968. Arrivato quel giorno,
ci incontrammo alla stazione ferroviaria: tutti guardavano per scorgere questo
poeta siciliano, magari immaginandolo col bastone e la coppola e, come ultimo
tocco, una barba bianca. Mi venne incontro Mario, il quale fece le
presentazioni di rito e, dopo un caffè offertomi nel bar della stazione, ci
avviammo presso l’Ateneo di quella città che non avevo mai visto. Giunti alla
Facoltà di Lettere e Filosofia, dove mi avevano preservato un posto insieme ai
docenti universitari, i laureandi venivano in modo composto a salutarmi e a
stringermi la mano. La cosa che m’incuriosì fu che quel posto non mi competeva. Ero
tra ragazze che in quel momento sentivano tutto il peso dello studio che le
aveva portate a quel traguardo agognato della laurea e, quindi, non era un sogno,
infatti di lì a qualche ora avrebbero avuto il riconoscimento dei loro
sacrifici: non più laureandi ma dottori nel ramo umanistico.
Una di loro si avvicinò borbottando: «posso toccarla?» Risposi con un mezzo
sorriso: «toccami!» Mi confessò che non aveva mai toccato un poeta vivente. La
nipote del mio amico Mario, in chiusura della sua tesi di laurea, parlò di me.
Continuò col dire d’essere stata in Sicilia, nel paese dove sono nato,
percorrendo i luoghi cadenzati da quel lontano 1946, soffermandosi nei posti
più bui del mio movimentato percorso: brefotrofio, collegio, famiglia adottiva...
Guardai quella ragazza, chiedendomi come potesse sapere più di quanto
sapessi io. La ragazza fu applaudita: si era meritata un centodieci e lode! Era
la prima volta che assistevo a una laurea e neppure mi rendevo conto come ci
fossi entrato pure io. Il presidente della commissione m’invitò, se volevo, a
recitare una mia poesia e a porre qualche domanda alla ragazza che mi aveva
invitato alla sua giornata di festa, che avrebbe ricordato per tutta la vita. In
quell’occasione recitai “Ricordo d’uno scolaro”. La stessa poesia che lei aveva
commentato parlando di me. La considerazione che mi venne spontanea fu quella
di invitarla a trasmettere la sua conoscenza letteraria agli altri, per
continuare a diffondere il sapere da qualsiasi parte esso provenga.
Nel frattempo, la situazione in casa mia non era certo delle migliori; mia
madre rimase a letto per più di un mese e intorno a me regnava il buio più
totale. Dovevo trovare una soluzione e una donna con la quale formare una
famiglia. Era proprio questo proposito che assillava i miei pensieri. Avrei
dovuto fare dei progetti reali, rinunciando ai sogni, andando incontro alla
realtà che non era più favola. Intanto, Giusy si era separata dal marito e
questo m’indusse a cercarla nuovamente.
Il marito era un mio amico d’infanzia ed un compagno di scuola, ma negli
ultimi tempi c’eravamo persi di vista. Qualcuno gli aveva detto che io
m’incontravo con Giusy. Un giorno mi fermò al bar della piazza di Camaro,
dicendomi con un mezzo sorriso che se avessi frequentato ancora sua moglie, mi
avrebbe ucciso. Tutto si era concluso con un sorriso e un finto saluto.
Nonostante fossi stato minacciato, continuai a vederla di nascosto, percependo
la sensazione che stessi rubando qualcosa; i nostri incontri continuarono nelle
ore notturne, quando il buio nascondeva ogni cosa. Durante uno di questi
incontri, salii sul tetto di una macchina posteggiata sotto il suo balcone per
arrampicarmi, quando un botto, che ci sembrò uno sparo, seguito da un’eco nel
buio della notte, ci terrorizzò. “Mi ha sparato!” borbottai tra me e me nel
buio, toccandomi per controllare se fossi ancora tutto intero. Non riuscivo a
capire dove mi avesse colpito; solo qualche momento dopo mi resi conto che il
botto era stato provocato dal tetto di quella vettura, una Millecento antica,
non era stato quindi uno sparo. In quell’istante capii che anche questo momento
doveva essere cancellato per sempre dai quei progetti mai realizzati.
Capitolo 10
La nascita di Giovanni, Antonio,
Mariagrazia e Tiziana
Trovare una donna adatta a me, con le mie esigenze familiari, non era
facile: per me era un grosso problema dover conciliare famiglia e cuore. Di
sicuro non potevo andare al mercato per comprare la soluzione. Frastornato da
quanto stava accadendo, rimasi in uno stato di confusione e mi affidai allo
scorrere del tempo. Durante uno di quei giorni, apparentemente uguali agli altri,
che apparivano privi di significato, mi recai con un amico alle isole Eolie,
per vedere un lavoro a Lipari. Al ritorno ci fermammo in una bottega di generi
alimentari per comprare dei panini e qualche bibita. Proprio vicino al porto di
Milazzo vidi una ragazza e, come mia abitudine, feci qualche battuta che lasciò
il segno; era l’anno 1968 e quel panino con la mortadella fu testimone della
nostra conoscenza.
La ragazza si chiamava Angela: una bellezza che subito mi aveva attratto e
mi aveva indotto a cambiare programma. Non avendo un mio mezzo di trasporto,
per quasi tre mesi feci il pendolare da Messina a Milazzo, poi feci la “fuitina”
e portai Angela a Camaro. Da qui ritornammo a Milazzo. Costruire una vita e
allacciarla alla esistenza passata diveniva sempre un compito molto difficile:
nel mio caso i pensieri venivano maciullati dal dilemma dei diritti e dei doveri.
Pensai alla solitudine, proprio a quella che divora e al suono di un lamento
che rimbomba nel silenzio. La mia vita, invece, era stata sempre colmata dal
bene voluto dai miei genitori, riempiendo gli spazi vuoti. Queste due figure facevano
parte integrante del mio essere, ed era difficile che la mia sensibilità se ne
dimenticasse. Anche il lavoro era una necessità primaria e diventava anche
questo un problema da risolvere, rincorrendo il tempo che divorava le ore che,
sommandole, divengono giorni e poi anni. Mi chiamarono alle “Officine Galileo
di Sicilia” per un colloquio e poco dopo fui assunto; almeno un problema, che assillava
la mia vita, lo avevo risolto.
Fonte: Massimo Tricamo, Storia dell’Industria a Milazzo, Milazzo, 2008
Fonte: Massimo Tricamo, Storia dell’Industria a Milazzo,
Milazzo, 2008
Rimaneva ancora il problema dei miei genitori, anche se ora la realtà aveva
una faccia diversa. Sì! Avevo trovato una donna a Milazzo e avevo trovato pure
un lavoro in una fabbrica che costruiva contatori elettrici per l’Enel, ma non sapevo
come risolvere la situazione che si era venuta a creare. Mi assillava
costantemente il pensiero dei miei genitori, che avevano fatto tanto per me e
anche per questo non potevo abbandonarli. Cercavo di ritagliare del tempo per
loro, per i loro bisogni, per essere accanto a loro nei momenti più difficili,
così come essi avevano fatto con me, dedicando il loro tempo alla mia crescita
ed estasiandosi anche soltanto al vedermi. Come queste due figure che erano
state per me un punto di riferimento, così anch’io avrei dovuto comportarmi nei
loro confronti e continuare il corso intrapreso. Spesso una nostra vicina, la
signora Raffa, e sua figlia Graziella li accudivano. Quando mio padre rimase
solo e non mi era possibile farlo io, erano loro che lo imboccavano e lo
curavano. Sarò sempre grato per questo. Dovevo affrontare il mondo, non più da
solo ma in coppia. Il 15 aprile del 1970 nacque un bimbo dagli occhi azzurri e
con i capelli biondi: sembrava uno di quei bambini scelti per le pubblicità che
tante volte vediamo sullo schermo di un televisore. Fu così che saggiai la
prima emozione d’essere padre, rincorrendo nella mente il passato di quando ero
figlio. Lo chiamammo Giovanni. A questo punto mi ero accasato, avevo la mia
famigliola, avevo la mia dimora, non eravamo più in due ma in tre. Col mio
primo stipendio, facendomi
coraggio, mi recai da un mobiliere: avevo bisogno di suppellettili per la
mia nuova casa. Per la prima volta firmai delle cambiali, con scadenza mensile,
assumendomi delle responsabilità verso la mia famiglia; ormai non vivevo più di
sogni, ma in quella nuova realtà. Avevo raggiunto una mia dimensione nel
tessuto sociale: ero sposato e avevo un bambino, ma i miei genitori erano più
soli di prima; così continuai a fare il pendolare, portando da mangiare e
tenendo loro un poco di compagnia. Qualcuno del posto era sempre vicino a loro,
ma mi addolorava non essere io quel qualcuno.
Intanto mi dedicavo anche al teatro e nel 1971, precisamente durante il carnevale
di quell’anno, interpretai una parte in un lavoro teatrale scritto dal prof.
Filippo Russo, “Giulietta e Romeo in Sicilia”: Una parodia giocosa della celebre
tragedia. Tale rappresentazione fu portata in scena a San Papino. Con passione
ed entusiasmo partecipai a quell’evento. Era stato un gruppo di ragazzi a
mettere su uno spettacolo che diventava anche momento di incontro. Io mi
adoperai per l’illuminazione e recitai mettendoci come sempre l’anima.
Carmelo recita una parte della parodia giocosa “Giulietta e Romeo in
Sicilia” tratta dalla tragedia di W. Shakespeare dal prof. Filippo Russo. Gruppo Teatrale ’71 presso la chiesa di “S. Papino”, Milazzo, 1971
Carmelo in una scena di teatro. Milazzo, anno 1971
Non trascorse molto tempo e divenni nuovamente padre.
Era l’8 ottobre del 1971 quando nacque Antonio. Il nuovo arrivato era di
una bellezza diversa: i capelli erano neri ma gli occhi di quel grigio-verde
che sembravano perle trovate in un’ostrica.
La vita mi si presentava sempre più in salita. Alle “Officine Galileo di
Sicllia” si preannunziavano scioperi; io venni eletto nel Consiglio di fabbrica
prima e nel Direttivo Provinciale della Fiom poi. Lo stipendio calava per
l’effetto degli scioperi, per le rivendicazioni nazionali di contratto e per gli
accordi aziendali. Malgrado tutto, riuscivamo ad andare avanti, integrando con
qualche spicciolo ricavato da lavori extra. Le scadenze delle cambiali
purtroppo ci riportavano ogni volta sotto zero, e la risalita diveniva sempre
più difficile. Cortei e scioperi contraddistinsero quei momenti della nostra
esistenza, che divenne a mano a mano più faticosa, ma proseguimmo ugualmente.
Poi, di notte, quando tutto tace, ci si accosta alla realtà del vivere, a
quella realtà che cammina di pari passo con noi, incapace di staccarsi dalla
nostra ombra. In queste notti il quadro appare nitido, ma con il pensiero si
fugge lontano, confondendo il presente col passato, dando il via a momenti di
puro sconforto, perché il pensiero si perde invaso da domande su ogni cosa,
spaziando dal mare al cielo, all’universo, a tutto insomma, anche al tratto da
scalare, alla vita da affrontare, il giorno, la notte, la perfezione d’un tracciato
sconosciuto o una parte di esso.
La mente umana ha sempre lavorato per dare delle risposte più profonde
riguardanti questo immenso tesoro che è l’universo, partendo dallo stesso io
sino alla più piccola cellula che ci circonda. A volte rimango scontento del
mio modo di esprimermi, anche perché mi manca in parte l’istruzione, essendo un
autodidatta. A suo tempo preferii lavorare, prigioniero dei tanti problemi
presentatimi da questa società poco organizzata. Lo Stato, senza tenere conto
che, come prevede la Costituzione, è una Repubblica democratica fondata sul
lavoro, abbandona il singolo all’arte d’arrangiarsi. Così, il presente e il
futuro per i figli saranno ancor più confusi e traballanti. In questo grande teatro
che è la mia Nazione, si assiste al cambio degli attori con i registi, i
cameraman e i produttori – che sono sempre gli stessi – ma si scambiano tra
loro i ruoli dal comico al drammatico, dal buffo al grottesco, con un giro di
miliardi che volano a bassa quota, mentre la gente muore di fame. Purtroppo
questa è la realtà dell’Italia mia.
Chi vive in quest’epoca non può fare a meno di constatare l’amara verità
che stiamo vivendo. Quando fisso lo sguardo sui miei angioletti che dormono
beati, ripenso ancora una volta al mio popolo dormiente e vorrei essere per un
istante il Creatore, per ridare vita alle cose e agli uomini e starmene
contento a contemplare. Sin dall’infanzia riuscii a comunicare con i versi e
sfogavo la mia rabbia e la mia solitudine scrivendo quello che provavo, nello
sconforto e nell’abbandono. Quante volte cercai nel silenzio la pace! In quegli
anni dell’adolescenza ero attorniato dagli affetti che, pur volendo, non si
possono comprare.
Ora soltanto, attorniato dalla famiglia, che ho costruito da poco, riesco a
valutare quel passato, che oggi ricordo da padre.
Da quell’8 ottobre del 1971, data di nascita di Antonio, passarono altri
due anni ed ancora un lieto evento: nasce Mariagrazia, il 15 febbraio del 1973.
Anche lei tutta suo padre: bella e bionda, di un biondo come il pennacchio del granturco
e gli occhi dell’azzurro cielo. Da quattro arriviamo a cinque! Quest’altro
fiore all’occhiello segna la mia esistenza, facendomi ricordare il vissuto da
solo, mentre ora attorniato da questi piccoli pargoli mi sento sempre più
realizzato.
Certo erano cambiate molte cose: da quel figlio unico che ero mi ritrovai
con tante bocche da sfamare, in un contesto sociale che non permetteva di fare
programmi. Il 12 giugno del 1975 ancora una volta si gridò al fiocchetto rosa:
nacque Tiziana, un’altra bella bambina, dal visino tondo, con gli stessi colori
chiari di Mariagrazia. Alla gioia per la sua nascita si aggiunse, però, il
pensiero di come fare per andare avanti. A volte un crepuscolo era solo la
visione che spronava a proseguire per affrontare l’alba del giorno dopo. Certo,
lo svegliarsi un mattino avendo dimenticato il passato sarebbe stato come
torturare un uomo già morto, cancellargli le sensazioni o le piccole particelle
che hanno contribuito alla nascita di quello che è oggi. Diventa amaro anche solo il pensare, gli occhi colmi di lacrime maciullano la mente.
Trasportando l’istante, rivivo attimi belli ma turbati, visibili nel viso
rigato che neanche il sole riesce ad asciugare. Il mancato sorriso di ieri
emerge nell’oggi. Pertanto, non sono distratto dalle apparenze profuse ma
attento a chi porge la mano nel dirupo presente. Interminabili attimi
rincorrono la vita che galoppa, senza fermarsi, con qualche sorriso nel guardare
i miei figli, dimenticando per un attimo il sofferto, con dentro il bagaglio
della mia solitudine. Incomincio a lasciare la mia infanzia troppo travagliata
con le visioni che non si addicevano alla vista d’un bambino. Con questa
realtà, cercai di dimenticare in fretta quel passaggio che, aveva ostruito il
cammino in quello spazio di tempo. Adoravo i miei bambini e, quando sentivo un
pianto, mi avvicinavo, scrutando il respiro d’ognuno di loro, entrando dentro
quel sonno, mentre programmavo il loro domani. Il crescere diviene un momento
difficile, c’è da impazzire! Ora l’uno ora l’altro: la febbre, i denti, il
pediatra, l’influenza, le notti bianche. Tutto ciò fa parte di una realtà precisa
e intanto rincorro gli anni che vanno via, o in quel corridoio o masticando una
sigaretta dietro l’altra, scrutando da vicino quei notturni momenti, quando non
sai che fare e divieni inerte, pur essendo il padre. Non ho mai avuto preferenze
tra loro, per me erano e sono tutti uguali.
Tutti insieme abbiamo scalato quel muro della vita, dando un comune
denominatore a ciò che rincorrevamo, per dare maggior forza a quei principi
innati nel nostro nucleo familiare. Se c’era da piangere, piangevamo tutti. Se
c’era da sorridere, lo facevamo insieme.
Capitolo 11
I miei figli illuminano
ogni mio passo
Era bello vederli rincorrersi tra le stanze: chi piangeva, chi cantava e
chi si aggrappava fortemente a me per non farsi raggiungere, o si nascondeva
sotto il letto, indicandomi di fare silenzio e di non dirlo. Era proprio questa
la vita che prendeva forma. Ricordo quando Giovanni entrò in prima elementare.
Quanto pianse Antonio non potendo giocare con lui! Nessuno di loro andava
all’asilo, perché l’avevamo già in casa. Poi anche Antonio entrò a scuola e la casa
incominciò a svuotarsi per mezza giornata.
Ognuno aveva il suo spazio, coltivando all’interno i giochi preferiti,
trasformando le stanze ora in stazione ferroviaria con i trenini elettrici che
scorrazzavano su quei binari che sembravano veri; poi era la volta delle
femminucce che facevano il bagnetto alle Barbie, diffondendo la schiuma per la
casa, mettendola a soqquadro. Ciò rientrava nella normalità di quegli anni.
C’era il caos ma, quando qualcuno di loro stava male, in casa c’era un silenzio
che parlava da solo e la tristezza e lo scoramento erano visibili. Volevo
essere presente anche a scuola e feci parte dei vari consigli di classe: tutto
questo per anni.
Tra i tanti punti da risolvere c’erano quello dello zaino pesante e quello
dei banchi troppo bassi, tanto da temere la scoliosi. Interpellammo il Comune e
richiedemmo e ottenemmo delle visite specialistiche, dall’ortopedico all’oculista,
all’otorino e infine allo psicologo, per risolvere qualche problema presente
tra i bambini.
Mentre Mariagrazia andava volentieri e non vedeva l’ora che venisse il
mattino, a Tiziana era venuta una sorta di malinconia e piangeva al pensiero di
rimanere sola a scuola. Ciò ci costrinse a sederci a turno accanto a lei nel
banco, per avere il conforto della nostra presenza, e questo durò per qualche
mese, poi pian piano si integrò pure lei. Venne il momento della prima
comunione, sempre in quella chiesa dove era stato somministrato il santo
battesimo. Credetemi, li guardavo con quegli occhi lucidi che dicevano tante
cose. Iniziò Giovanni e di seguito Antonio, Mariagrazia e Tiziana. Questa
immagine immortalata nella mente mi fece capire che i miei angioletti stavano
crescendo con tanti sacrifici, contornati dall’affetto di questa famiglia che
mi faceva sentire ancora più utile ed uomo; mi soffermavo un attimo guardandoli
ed ero contento per loro. Lo scorrere degli anni li vedeva avanzare in quel
cammino scolastico che piano piano prendeva forma: da scolaretti divenivano
studenti in quel contesto sociale. Era di rito che, dopo i compiti, i
maschietti scendessero in cortile per farsi le partitelle di calcio con i loro
coetanei, mentre io li seguivo dal balcone di quella via Col F. Bertè. La
nostra casa era ubicata vicino la chiesa del Sacro Cuore, dove c’era padre
Cutropia, un grande amatore del calcio, e sia Giovanni che Antonio si
integrarono all’interno di quella squadra – Giovanni nel ruolo di terzino
mentre Antonio in quello di portiere – e gli appuntamenti sportivi non
mancavano.
In questo periodo anche i miei impegni non diminuirono. Insieme ad altri
padri eravamo sempre impegnati a trasportarli con la macchina, ora in un campo,
ora in un altro, per quelle partite che difendevano i colori sociali del gruppo
sportivo del “Sacro Cuore”. I ragazzi erano entusiasti, non solo del calcio ma
anche della scuola, dove ottenevano buoni risultati.
Mariagrazia e Tiziana, invece, rimanevano in casa per aiutare la mamma a
mettere in ordine e a pulire, o uscivano per andare alla bottega della nonna.
Finite le scuole elementari, si accingevano a valicare il cancello delle medie:
uno dopo l’altro e tutti nella sezione F. In quel periodo fui eletto nei vari
consigli di classe e poi presidente del consiglio d’istituto. Mi dedicai con
tanto amore a quel compito, per risolvere qualche problema all’interno della
scuola. Ci furono riunioni a fiume con gli insegnanti per deliberare le gite
d’istruzione. Per la prima volta in Sicilia si parlò di una palestra
all’interno della scuola e della necessità di installare un bagno adeguato per
i portatori di handicap; si presero anche in esame tante altre esigenze degli
studenti e per questo c’era bisogno di una presenza continua dei rappresentanti
dei genitori. Mi dedicai oltre al sindacato anche alla politica, tenendo
qualche comizio in piano Baele a Milazzo. In quell’occasione rimasi stupito di
quanta gente c’era in piazza, tanto che chiesi al segretario del partito di appartenenza,
l’allora Partito Socialista Italiano, se quella gente fosse venuta per
ascoltare me. Il segretario, che era l’ing. Nino Nastasi, mi comunicò che dopo
di me doveva parlare il mitico oratore Giorgio Almirante.
Mentre scendevo gli scalini del palchetto, Almirante mi strinse la mano,
dicendomi: «complimenti per la dialettica espressa nel suo comizio.» Questo
riconoscimento mi fece piacere. La mia vita era impegnata e piena tra il lavoro
e il ruolo di padre. L’azienda dove lavoravo, nel frattempo, cambiava
continuamente gestione: da “Officine Galileo di Sicilia” passò prima alla
Montedison, poi alla Aeg Telefunken ed infine alla Schamberger. Questi passaggi
videro gli operai sempre in lotta per difendere quel salario che era l’unica risorsa economica per le famiglie. Ci furono vari incontri all’Associazione
industriale di Messina e a Milano con la consorella Cogeco. Siccome facevo
parte del consiglio di fabbrica, dovevo andare a Milano per un incontro congiunto
all’Asso lombarda, ma prima di partire ebbi un incidente all’ingresso della
Mediterranea: rimasi in coma per tre giorni, disertando l’incontro previsto. Mi
svegliai poi al Policlinico di Messina, senza ricordare quanto era successo. Ricordo solo che, quando mi svegliai, stringevo la
mano di mia figlia Mariagrazia. Sembrava tutto brillantemente superato, ma
quell’incidente imprevisto aveva riportato alla luce le crisi che si erano
scatenate anni prima: un primo attacco epilettico, avvenuto mentre parlavo all’assemblea
nei locali della Galileo, fu seguito non molto tempo dopo da un ulteriore
attacco che mi vide prigioniero nel bagno della mia abitazione; si dovette
quindi sfondare la porta per darmi soccorso e fui costretto a ricorrere alle
cure dell’ospedale di Milazzo. Quell’incidente aveva risvegliato il male
antico. La situazione si era fatta alquanto seria, dovevo prendere delle
decisioni in merito e contattai il prof. Simone Rigotti da Padova, uno
specialista in neurologia. Presi un appuntamento; nonostante fosse per me un
grosso problema arrivare a Padova da solo, mi feci coraggio: sotto la maglietta
misi un cartello con il numero telefonico e l’indirizzo di casa e partii per
questa avventura. Riuscii ad arrivare nello studio del prof. che, dopo un’accurata
visita, mi confermò che ero affetto da epilessia e mi consigliò di continuare la
stessa cura che avevo iniziato a Messina. Infine l’insigne luminare mi indicò
l’infermiera per pagargli l’onorario.
Lo interruppi dichiarando: «professore, lei ha finito? Ora la prego di
sedersi, ché parlo io.» Il professore mi guardò ma non fiatò e si risedette,
ascoltandomi. «Caro professore, ho fatto 1.400 km. Capisco che dalla mia
Sicilia sentiamo i tamburi dei tam tam dell’Africa, ma non permettiamo a
nessuno di trattarci così. Io speravo che la sua scienza medica fosse
accompagnata da un conforto psicologico per chi prende il treno della speranza
in modo da alleviare l’angoscia.»
Il professore mi guardò e mi chiese: «ma lei cosa pensa, di avere un
tumore?» Io gli risposi: «ma lei conosce la prevenzione contro i tumori?» Mi riguardò negli occhi, strappò quella ricetta, ne scrisse
un’altra, questa volta intestata all’ospedale di Padova con la scritta a
lettere cubitali “Ricovero Urgente”. Mi accompagnò alla porta con queste
parole: «ci vediamo domani in ospedale.»
L’indomani mattina, puntuale, lo sentii parlare nel corridoio e chiedere:
«dov’è il siciliano?» Si presentò ai piedi del mio letto, fece uscire chi c’era
con lui e mi disse queste testuali parole: «mai nessuno mi aveva parlato così,
grazie per questa lezione di vita.»
Mi prescrisse una TAC urgente e già l’indomani fu effettuata.
Dalla TAC risultò che tutta la corteccia cerebrale era infiammata da un
grumo di sangue. Nel tempo si era formato un grumo quanto un fagiolo, e quando
toccava il cervelletto mi venivano quelle crisi chiamate epilettiche. Il bravo professore
mi ringraziò ancora, mi diede una cura che serviva a far riassorbire il danno e
mi disse che col tempo quel grumo sarebbe regredito.
Ma la parte infiammata mi causò problemi per quasi cinque anni, scatenando
ancora qualche crisi. Secondo il parere del primario di Padova, col tempo
questi sarebbero scomparsi. Presi il treno di ritorno, riabbracciai la mia
famiglia e continuai la vita di prima. Anche quella volta superai il traguardo.
In quel periodo trovai pure conforto nello scrivere qualche poesia dedicata ai
miei figli. In quei momenti mi sentivo attratto dai versi che divenivano
comunicativi col mio me stesso.
Proseguì così la mia vita. Ci furono pure istanti di smarrimento, di
preghiera ed altri ancora immortalati in versi che mi accompagnavano nel mondo
della poesia. Descrivere il pianto diviene più facile e insieme all’anima ferita
si fissano nei componimenti poetici le sensazioni, che senza volerlo trascinano
anche il corpo. Il sorriso, invece, è difficile immortalarlo: lo stesso appare senza
lasciare traccia come una scia che evapora, a differenza del pianto, che lascia
ferite profonde che durano una vita. Provo ad accarezzare una parte del vivere,
mentre l’altra è dimenticata da quel dolore che la vita si porta appresso. Questi
passaggi vitali sono custoditi nel bagaglio personale fino alla morte, senza
poter raggirare il sistema che t’induce a riflettere nonostante tutto. Sono
padre e vorrei vivere sino a quando la lucidità mentale potrà accompagnarmi,
senza chiedere a nessuno la mano per guidare i miei restanti passi.
Ognuno dei miei figli scelse un indirizzo diverso per proseguire gli studi,
dando soddisfazione a se stessi prima e a noi genitori dopo. Anche in quegli
istituti fui presente come rappresentante dei genitori, dedicando un poco del
mio tempo per collaborare con la macchina scolastica. In una delle tante
riunioni mi capitò un caso singolare, che solo il destino poteva far coincidere.
Fu un incontro casuale che mi fece gocciolare qualche lacrima.
Dopo una riunione del consiglio d’istituto del liceo scientifico, il
professore di filosofia – che viveva a Messina e faceva il pendolare nella
tratta Messina-Milazzo e che aveva un’attenzione particolare per Giovanni – mi
chiese se potevo accompagnarlo alla stazione per prendere il treno. Quando era
già nell’abitacolo della mia macchina, vide un documento del brefotrofio con
una firma che gli era familiare: era la firma di suo padre. Capì subito e mi
chiese: «che numero di culla eri?»
Capii anch’io e risposi: «culla tre»; lui ribatté: «culla due.»
Istintivamente fermai la macchina, scendemmo e un abbraccio forte seguito
dal silenzio arricchì quella parte del passato ritrovato. Poi mi raccontò che
il direttore del brefotrofio lo aveva adottato, mentre io ero stato adottato
dai Billè. E furono cambiati i programmi per la serata; telefonò a sua moglie e
la invitò a prendere il primo treno per Milazzo, comunicandole che aveva
trovato un fratello. Parlammo delle cose vissute e dello stesso destino
condiviso: io raccontai la mia storia, lui si accinse a raccontarmi la sua. Passò
qualche ora e ci raggiunse sua moglie; ci avviammo tutti insieme verso casa e
quando Giovanni vide il professore a casa nostra, si chiese stupito: «come
mai?»
Dopo aver appreso la verità, anche lui si commosse. Ordinammo una pizza e
passammo la serata insieme, ricordando la stessa vita e gli stessi luoghi di un
tempo che ci videro lattanti mentre adesso eravamo entrambi padri. Uno di noi
era divenuto addirittura il professore del figlio dell’altro!
Un altro tassello si era aggiunto al mosaico che rappresentava la mia vita,
che proseguo riflettendo solo sull’arte di essere padre e di far crescere i
figli nel miglior modo possibile.
Capitolo 12
L’incontro con Giuliana
Il 12 agosto del 1989 conobbi Giuliana in un caldo torrido che, oltre a
scaldare il clima, scaldava pure i cuori. Fu come nelle fiabe: “amore a prima
vista”! Ma, oltre al fatto che io ero sposato con quattro figli, si aggiungeva
il problema della distanza, in quanto Giuliana era pugliese. Era la sorella di
Jole, la moglie di mio cugino Gino, che abitava a Genova e si trovava in
vacanza a Milazzo. Un giorno, finito il mio turno di lavoro, arrivai a casa e mi
venne detto che mio fratello insieme alla sua famiglia era al mar di ponente,
presso “Le Cupole”. Mi precipitai subito in spiaggia, come attirato da una
calamita. Li trovai tutti a prendere la tintarella d’agosto sulla riva di quel
mare cristallino, dove con lo sguardo si catturano le sette sorelle, le isole Eolie,
un patrimonio della natura adagiato sul mare. Mia cognata Ada mi presentò Jole
– che avevo visto insieme con Gino qualche rara volta – ma, intanto, avevo
adocchiato un volto a me sconosciuto che faceva parte della comitiva. «È la
sorella di Jole» mi dissero. Quei momenti vennero fissati dalla mia mente, ma
soprattutto fui catturato da quel visino ammaliatore che mi aveva subito
colpito e col quale da quel momento feci coppia fissa, tra lo stupore di mio fratello e di tutta la compagnia.
In quel periodo facevo parte di un gruppo musicale che organizzava serate
di liscio per le feste patronali in piazza; in occasione dell’estate venivano
allestiti eventi del genere, per animare le sere alla frescura del crepuscolo. Ricordo
che eravamo impegnati a Castroreale, Bafia, Protonotaro, Barcellona, Milazzo.
Presi la palla al balzo ed invitai mio fratello con tutta la comitiva: le
serate erano cadenzate l’una dietro l’altra e a mia cognata, un’amante del ballo,
ciò non dispiaceva.
La prima tappa fu l’indomani a Bafia: io col microfono in mano conducevo la
serata, ma gli occhi si posavano sulla creatura che avevo adocchiato e
conosciuto il giorno prima al mare e che aveva suscitato un battito in più al
mio cuore. Quel colpo di fulmine mi folgorò pensieri e vista, senza poter dimenticare
più quell’attimo. Figuratevi che nelle presentazioni facevo la carrellata dei
brani della serata e scendevo per stare vicino alla pugliese che aveva rubato,
senza accorgersene, una parte del mio cuore. Forse stavo esagerando, senza
rendermene conto, tanto che mia cognata mi chiamò in disparte per dirmi «ma,
Carmelo, lasciala in pace, è la sorella di Jole!», pur sapendo che da qualche
tempo il mio matrimonio era naufragato a causa dei nostri caratteri diversi.
Dopo queste attenzioni da parte mia, le quali divenivano ossessive,
Giuliana, seguendo il suo punto di vista che riteneva il nostro legame
impossibile, di lì a una settimana, decise di fuggire da Milazzo. Io, però,
spinto dal richiamo di quello che avevo provato, continuai ad alimentare quel puro
sentimento, pur sapendo di imboccare una via senza uscita. Questa volta sembravo
più che convinto: avevo raggiunto quella capacità mentale che ci fa diventare
un agnellino che cerca conforto nelle mammelle della madre, colmando il senso
di fame sprigionato da madre natura. Ed io provai la stessa sensazione nel
vedere il volto di quella donna, in cui subito trovai somiglianza col mio io.
Stavano per finire le ferie estive e gli appuntamenti lavorativi incalzavano,
rincorrendosi. Rivoltavo la realtà da ogni angolazione, pur non sapendo come
affrontarla, chiudendomi in un silenzio dove mi sentivo smarrito. Nel
frattempo, però, non disdegnavo di fare qualche progetto, spiandone l’evolversi
nella mia mente. Mi presentai a Lecce, nonostante tutto.
E trovai una terra bellissima che non avevo mai visto, con quel barocco che
viene proposto come biglietto da visita a chi si presenta a scoprire la città,
detta “la piccola Firenze del Sud”. Una volta incontrata Giuly, risultò
alquanto difficile farle capire che il mio matrimonio da tempo era finito. Il
fatto che mi trovassi sempre più solo non la convinceva. Il mio vivere era
stato, infatti, una sorta di enigma da quando ero nato, e avevo deciso di
tornarmene da mio padre a Camaro per cercare quella quiete che avevo perso. Non
riuscivo a smuovere Giuly dalla convinzione che la mia condotta non era una
cosa ben fatta. Alla fine Giuly sembrò convincersi della mia situazione. Cercai
di rassicurarla che, naturalmente, accanto a me ci sarebbe stata solo una donna
per il resto dei miei giorni. Io continuai a vedere Giuly, andando a trovarla a
Lecce. Nel frattempo mi ero trasferito a casa di mio padre; stetti insieme a
quel vecchierello che mi aveva dato pure qualche consiglio prima della
dirittura d’arrivo e lo vedevo sereno e felice. Lavoravo a Milazzo e nel
contempo facevo il pendolare da Camaro, mentre il venerdì partivo alla volta
del Salento. In quei momenti di silenzio e di riflessione, ponderavo ciò che
dovevo fare. Avevo trovato una serenità interiore che mi vedeva tranquillo e
felice, anche se dovevo rincorrere lo sguardo dei miei figli, allungando il mio
passo dietro il loro.
Nello stesso tempo, per ognuno di loro si avvicinava sempre più il
traguardo del diploma o il conseguimento della maturità liceale, ciascuno nell’indirizzo
intrapreso. Questi momenti gratificavano loro ed anche me. Giovanni varcava le
porte della Università di Messina, nella facoltà di Filosofia; quel sogno da
lui rincorso, oggi è avverato. Mentre Antonio, dopo il diploma di perito
chimico, nel quale si distinse con qualche borsa di studio, si arrampicava nell’avventura
della medicina. Però, quasi subito dopo l’iscrizione all’università, perse
l’interesse ed iniziò il corso infermieristico, che lo vide impegnato con grande soddisfazione.
Anche lui, forse confuso ma pieno di grande volontà, s’immise nella vita
lavorativa che esercitò con grande passione, trasmettendo sempre più quel lato
umanitario che cercava di nascondere. Alla fine, optò per la Raffineria
Mediterranea; venne mandato a Roma per un corso e continuò il suo impegno in
tale attività.
Capitolo 13
Marco e Davide
Mentre lo scorrere dei giorni e dei mesi ci portava a conoscerci meglio,
scoprimmo che Giuliana aspettava un bambino. Era il 1990. Non avevo grandi
certezze con cui rassicurarla, soltanto il mio amore. Intanto alle Officine
Galileo c’erano i preparativi per festeggiare il 25° anniversario dell’azienda.
Io ero impegnato nell’allestimento della sala mensa, che doveva essere adibita
a ricevere le alte personalità politiche e religiose nonché i dirigenti, gli
addetti ai lavori e gli ospiti provenienti dalla Germania, quando in portineria
arrivò una telefonata per comunicarmi che Giuliana era stata ricoverata
urgentemente all’ospedale di Lecce.
In fretta e furia partii verso la città pugliese e nel tragitto pensavo a
cosa poteva essere successo. Non avevo nessun punto di riferimento e navigavo
nel buio più totale. Il cuore accelerava i battiti, mentre passavano le ore.
Non vedevo l’ora di raggiungere la meta. Gli occhi si perdevano nelle immagini
apparse di lì a poco, arrivando in Puglia. Ecco ancora bufere ed eclissi
immesse nel cammino della mia esistenza!
Non ho mai potuto fermare il tempo. Sfogliando le immagini, che fanno da
cornice a quello che capita in tali visioni, solo il ricordo del passato
accompagnava il dondolare del treno, senza poter chiedere a nessuno la trama
del film in oggetto. E il protagonista, senza saperlo, ero sempre io, col
risultato della vita di oggi.
Ma quei sogni svanirono e divenne “subito sera”. Sembrava tutto quieto ed
accettato da quello che era il cammino intrapreso nella vita di sempre, quando
mi accorsi che il mio non era un vivere ma un vegetare nell’insieme confuso,
divenuto “soggiorno obbligato”. Era, quindi, arrivato il momento di guardare
con più attenzione il percorso dei miei passi valutando oggettivamente la somma
degli anni che mi sembravano sprofondati in un abisso. Mi sentivo giovane e non
inerte, ad un tempo. Ma dovevo valutare bene ogni particolare della mia nuova
vita insieme a Giuliana, perché questa decisione tanto delicata avrebbe dovuto
accompagnarmi per tutta la vita. Ricordo ancora quelle notti interminabili che
alimentavano l’insonnia, facendomi rigirare tra le lenzuola bianche, nel tetro
buio della notte, senza poter condividere con nessuno quel che sembrava disperso
nel grande silenzio che mi avvolgeva; ma tutte le albe mi riportavano alla
verità. Quando conobbi Giuliana, la vita cambiò tutta di un botto, sospinto e
allettato dall’amore che provavo per quella figura mora, dal volto incerto ma
espressivo per i mille “perché” impressi nel suo sguardo penetrante, che in me trovavano
risposta immediata: raggiungere la meta del calore d’un nido! Arrivato a Lecce, ad attendermi in stazione c’erano la sorella di
Giuliana con suo marito; mi comunicarono che Giuliana era nel reparto di
ginecologia. Prontamente mi feci ricevere dal primario del reparto in
questione, puntualizzando che quei dolori cadenzati erano dolori dovuti al
parto e l’antidolorifico non serviva a nulla; forse c’era bisogno di qualche
cerchiaggio, ma ormai il tempo non era più a nostro favore. Il primario mi
seguì nel reparto e, constatato quanto gli avevo detto, fece portare Giuliana
in sala parto, tra un via vai di anestesisti con tutti i medici messi a disposizione.
Dopo un po’ sentii un pianto provenire dalla sala parto e subito mi domandarono
se volevo vedere il bambino, dissi di sì e, indossati un camice verde ed una
mascherina, feci il mio ingresso in sala parto. La scena fu una di quelle che ho fissato nelle
mie pupille: il bambino nato a cinque mesi di gestazione era ancora con gli
occhi non formati ma vivo; fecero di tutto per non farlo morire. Il suo pianto
oltrepassava i miei timpani. Rimase in vita solo il tempo di battezzarlo col
nome di Marco e subito prese la via dei Cieli, lasciandomi impressa nella mente
la visione di quel corpicino inerte poggiato su un marmo freddo dell’ospedale
di Lecce. Mi chiamò il direttore sanitario per la prassi burocratica di questi casi. Dovevo compilare alcuni moduli, firmarli e tutto si sarebbe
concluso nel giro di qualche minuto; ma, quando in uno di quegli incartamenti
vidi scritto che il bambino era nato morto, rifiutai di firmare. Un medico lì presente
mi disse che non cambiava niente, in quanto il nascituro nato prematuro era
morto e, di certo, non si poteva riportare in vita dichiarando ch’era nato
vivo. Pertanto, ciò comportava che bisognava allestire la camera ardente e fare
un normale funerale sino al cimitero della città di Lecce. L’indomani mattina
con il carro funebre l’avremmo accompagnato per l’ultimo saluto là dove entrano
i morti, lasciando andare i viventi. Passarono quelle ore in un dormiveglia di dubbi e d’incertezze che mi fecero sobbalzare tutta la notte, con
pensieri strani che mi venivano in mente costruiti sulle parole che mi avevano
detto il giorno prima. Un dubbio predominava sugli altri: “e se mi avessero
dato una cassetta vuota?”
Allontanai questo atroce dilemma solo quando mi accorsi che in ospedale
aspettavano noi per saldare la piccola bara bianca. Lasciato l’ospedale ci
avviammo al cimitero, dove Giuliana aveva preso una celletta per tumularla. Quell’innocente,
che non aveva avuto il tempo di vedere la luce, aveva lasciato nel cuore di sua
madre un vuoto incolmabile: anche quando sembra che il tempo abbia guarito quella
ferita, le ombre ritornano ad aleggiare, perché un figlio non si dimentica come
un ombrello lasciato in treno.
Questa perdita aveva acceso la speranza negli altri parenti che le cose tra
me e Giuliana sarebbero cambiate e, invece, hanno portato a rafforzare la
nostra unione. Non sto a raccontare quello che abbiamo patito, perché fa parte
di una fetta di vita già passata; ci siamo fatti forza a vicenda, sostenuti dall’amore
reciproco, che dura tuttora, sempre pronti in ogni momento a sorreggere il peso
del destino che ci è toccato.
Subito dopo la morte di Marco, io e Giuliana decidemmo di andare a vivere
insieme. Cercavamo di completare il quadro con la nascita di un figlio. Nel
1993 nacque Davide, con pochi capelli, di un biondo come la pannocchia del
granturco e gli occhi celesti che sembravano rugiada posata su un fiore d’un
mattino d’estate. Le sue sembianze assomigliavano a quelle della madre.
Il bimbo attorniato dal nostro amore cresceva in bellezza e pieno di
vivacità, affrontando giorno dopo giorno la vita attraverso le piccole cose,
cercando di ricostruire i tratti crollati per riuscire a completare questo
nostro cammino intrapreso.
Quando nacque Davide era autunno; guardavo i vetri appannati delle finestre
dell’ospedale di Milazzo e pensavo a quanto Giuliana ed io, dopo la perdita del
primo, saremmo stati contenti di avere un altro figlio, desiderato tantissimo ma
che tardava ad arrivare. Avevamo fatto di tutto per averlo, recandoci persino a
Palermo per effettuare degli accertamenti particolari; dopo qualche tempo ci
accorgemmo che Giuly aveva un ritardo di quattordici giorni e risultò che era
incinta! Potete, quindi, immaginare la nostra contentezza: eravamo al settimo
cielo.
Nonostante la gioia provata, fu un periodo difficile: per ben sette mesi
Giuly dovette restare sempre a letto per il rischio di aborto; non poteva
neanche fare pulizie in casa. Successivamente, durante una passeggiata in
Marina Garibaldi a Milazzo, Giuly accusò dei forti dolori e pensavamo che stesse
perdendo Davide; la portai subito in ospedale e per fortuna tutto si risolse
per il meglio.
Per noi, Davide è stato un miracolo del Cielo! Ero felice come non mai. Le
mie premure erano le stesse che aveva Giuliana e insieme gli facevamo il
bagnetto, lo facevamo mangiare; io aiutavo Giuliana perché lei non era molto esperta
con i bambini, ma bastava il suo amore per noi due a risollevarmi. E poi
c’erano le amiche Loredana e Carmela, la madrina di Davide, che l’aiutarono
tantissimo. Davide nacque dopo otto mesi e cinque giorni di gravidanza e,
siccome era nato prematuro, lo misero in incubatrice per cinque giorni, durante
i quali Giuliana non lo vide. In quella stanza Davide era il più bello, il più
pasciuto di tutti i bambini. Davide nacque il 5 novembre 1993. Io pregavo Dio
che lo proteggesse.
Il mattino della sua nascita sembrò interminabile: ero in ansia come fosse
la prima volta che il mio cuore batteva per un esserino che stava venendo alla
luce grazie a me. Poi lo sentii piangere e la mia ansia si placò. Erano le 4.05
del mattino.
Quando lo vidi, fu come fissare un raggio di sole capace di bruciarti gli
occhi! Io non riuscivo a non essere in pensiero; so soltanto che, dopo che venne
alla luce, mi sentii meglio: il cerchio si era chiuso, l’amore verso il mio
bambino mi ripagava di tutte le sofferenze patite. Nel vederlo, avrei voluto
dirgli tante cose: di essere onesto e leale verso gli altri, di affrontare
senza paura il suo destino, magari di aiutare qualcuno più sfortunato e di
seguire questi consigli, e che a seminare nel giusto tutte le porte gli sarebbero
state aperte. Avrei voluto dire a quel batuffolino, il quale se ne stava tra le
mia braccia, che era stato voluto in modo consapevole e che per lui avrei
varcato barriere e lottato anche contro i mulini a vento. Poi lo portammo a
casa e la nostra vita si arricchì del suo chiacchiericcio, dei suoi sguardi
curiosi e dei primi passi sorretto dal mio amore e da quello di Giuly.
Battezzammo Davide nella chiesa del “Sacro Cuore”, ma padre Cutropia, in cui
confidavamo per il battesimo, non era presente, perché si era recato a
Siracusa; così fu battezzato da un altro prete che era lì per sostituirlo. Gli
fece da padrino Antonino, un mio collega, e la madrina di fazzoletto fu sua
moglie, Loredana. La sua vera madrina è mia cugina, Carmela.
Passarono gli anni e iscrivemmo Davide alla scuola materna, ma lo misero in
lista d’attesa e sarebbero passati mesi se non anni prima che lo chiamassero.
Così fu iscritto alla scuola materna di San Filippo del Mela, gestito dalle
suore. Davide era ancora piccolino quando volli accontentare la mia amata
Giuliana riguardo a un desiderio che aveva fin dalla tenera età: suonare il
pianoforte. Quando Daviduccio era a scuola, lei prendeva lezioni di musica, due
volte a settimana, dalla maestra Rosaria. Volli accontentarla perché era il
minimo che potessi fare per lei esaudire uno dei suoi sogni. Era volenterosa la
mia Giuliana, si applicava molto e penso che da qualche parte conserva ancora
con cura quegli spartiti e la tastiera della marca KORG is 50.
Inizialmente quando Giuly suonava sentivo le note quasi stridule, ma col
tempo mi accorsi che era piacevole sentirla suonare.
Alcune volte fingevo di allontanarmi ma l’orecchio era sempre attento a lei
e al suo suonare e mi piaceva perfino sentirla cantare: il dolce timbro della
sua voce era come una nenia che mi cullava e mi faceva stare bene. Imparava gli
spartiti e migliorava di giorno in giorno; la musica era diventata la sua
compagna. Quanto avrei voluto che arrivasse a diplomarsi!
Cos’è la musica per me? È un’arte che tocca il cuore, è carezza e serenità.
La musica fa rimanere giovani e fa tacere anche il dolore.
Si avvicinò il momento per Davide di entrare a scuola: il suo terreno era
ancora un foglio bianco tutto da scrivere. Lo osservavo quando arrivava il
pulmino e lui saliva per andare a imparare tante cose a scuola, mentre io avevo
il cuore in gola.
Il nostro bambino frequentò la prima classe elementare, nel vicino plesso
scolastico di Grazia. Doveva percorrere ancora tanta strada, anche se i primi
due dentini erano già caduti, per raggiungere la meta “vita”. Mi sentivo
realizzato, anche se cassintegrato, in attesa del gettone pensionistico, dopo
aver lavorato per ben ventinove anni presso un’azienda di contatori elettrici
per l’Enel.
Con Giuliana abbiamo vissuto bene insieme al nostro birbantello Davide, che
aveva compiuto sette anni ed era entrato in seconda elementare. Allora
abitavamo a S. Pietro di Milazzo, dove il bambino si era inserito abbastanza
bene con i compagnetti di gioco, anche se con l’inizio della scuola dovette
dedicarsi di più allo studio, trattandosi dei suoi primi appuntamenti
importanti con i doveri della vita. Da più di due anni con noi c’era pure mamma
Lucia che, poveretta, era a letto da cinque anni. Era circondata da tanto affetto
e dalla grande cura che Giuliana le dedicava. Mamma Lucia, sua madre, aveva
quasi ottantanove anni; io da sempre l’ho considerata come una mamma e le ho
voluto un mondo di bene. Da quando era con noi era felice, specialmente quando
tutti insieme intonavamo la canzone “Santa Lucia” e lei, che si chiamava per
l’appunto con questo nome, ne era contenta. Per farle passare il tempo,
giocavamo anche a carte con lei, specialmente al gioco del cavallo e la
prendevamo in giro quando alla fine le restava in mano la carta del ciuccio.
Si divertiva con poco mamma Lucia; per noi erano momenti di felicità così
genuina che scordavamo le nostre pene. La morte di mamma Lucia mi lasciò un
grande vuoto dentro. Conservo nella mente quegli ultimi istanti di vita, il ritratto
del suo viso, della sua figura amata. Quando guardo il volto di mia moglie, sua
figlia, ne rivedo il viso martoriato dal dolore e nel mio pensiero tutto si
ingarbuglia. Adesso la stanza che la ospitava è vuota, sento come un’eco e non
riesco a proferire parola. Soltanto alcuni versi mi passano per la mente e li
butto giù su un foglietto di carta qualsiasi. “Mamma, nonna Cia, hai sfiorato i
novant’anni, col tuo passo hai attraversato il tempo”.
Capitolo 14
Un fulmine a ciel sereno
In un momento assai delicato pensai proprio che fosse arrivato il tempo di
salutare il resto dei viventi quando, per un banale controllo spinto da
Giuliana, viene evidenziato un palloncino all’aorta, alle radici del cuore. La
cosa, oltre a preoccupare Giuliana, allarma il cardiologo che ci indirizza al
Centro di Pedara in provincia di Catania – un Centro attrezzato per le malattie
cardiache – e nel giro di pochi giorni mi ricovero ed inizia in tal modo
un’altra avventura del mio andare per la vita. Dopo tutti gli accertamenti, si
opta per l’intervento, quale spada di Damocle caduta su me. Il mondo mi appare
ora grigio ora nero, guardando soprattutto l’espressione di dolore sul volto di
mia moglie e, se volete, anche su quello del piccolo bocciolo che è il mio
Davide.
Mamma Assunta con la sua preghiera tranquillizza Giuliana ed è sempre
presente a questi eventi che sintonizzano e mettono a fuoco tale piccolo
calvario, nello scorrere il viaggio della vita, incamerando sempre più i dolori
che non si possono condividere con nessuno; ma il coraggio di questa donna, che
fa parte integrante della mia famiglia, mi sveglia dal letargo. Grazie, mamma
Assunta, per alleviare il mio dolore. Giuliana, tramite Raffaella, la moglie di
mio figlio Giovanni, fa di tutto per avvisare il resto dei miei figli. Tutti
sanno della mia situazione alquanto difficile e con il rischio di non farcela.
Sono confortato dalle telefonate che i miei figli mi fanno per incoraggiarmi e
starmi vicino, a modo loro, in questo momento che colloquio con l’aldilà. Gli istanti
trascorsi sono stati duri oltre che per me anche per Giuliana, che mi è stata
vicina tutti i giorni a Pedara, la quale dista circa centotrenta chilometri da
Milazzo. In quella occasione, e non solo, gli Andaloro, miei vicini di casa,
sono sempre stati presenti a questo andare e venire da Pedara. Sono cose che si
commentano da sole, gesti che ho registrato in quei momento e che non
dimenticherò mai. L’intervento andò bene; venni operato dal dottor Gentile a
cuore aperto con tutti i rischi che comportava tale operazione, essendo tra i
primi pazienti d’Italia a subirlo; infatti, a questo difficile intervento era presente una équipe giunta dal nord Italia.
Grazie all’insistenza di Giuliana, oggi sono ancora qui a poterlo raccontare.
Come si dice, devo la vita a questa donna venuta da Lecce, oggi mia moglie.
Grazie!
Il continuo andare sembra irto di chiodi appuntiti che procurano ferite che
sanguinano da tutte le parti. Il tragitto tracciato scorre sin da quando sono
nato, senza che io possa appellarmi al volere divino, portando a tracolla gli
anni correlati alle lacrime e ai pensieri, preparandomi ad un altro evento in
questo vicolo pieno di ostacoli dove si dirige lo scorrere della vita,
lasciando tante ombre che non potrò mai illuminare.
Come se non bastasse, dopo il delicato intervento a cuore aperto è stata la
volta del distacco della retina all’occhio sinistro. Dopo vari tentativi per
salvarlo con dolorosissime punture locali, ho perso la vista del citato occhio.
È nel mio carattere non abbattermi e in cuor mio la cultura, principalmente
rappresentata dalla poesia, occupava tutto il mio tempo, anche se mi sono
sempre dedicato con amore a Giuly e a Davide. Feci parte di un gruppo che all’epoca
si chiamava “Amatori della poesia” e come sede aveva il vecchio municipio di
San Filippo del Mela. Si fece qualcosina, ma non abbastanza. Avevo sempre
sperato di creare un gruppo di tantissime persone che amassero come me tutte le
forme d’arte possibili. A San Filippo del Mela non restammo molto, solo qualche
anno, il tempo di fare una silloge e qualche recita di poesie. Ci trasferimmo a
Pace del Mela per un certo tempo. Si svolsero delle attività culturali, ma
lasciammo anche quel sito e per un momento rimanemmo senza sede, pertanto gli incontri
con gli artisti avvenivano a casa mia. Durante il periodo di Pace del Mela
cominciai ad accusare dei dolori alla schiena. Pensavo si trattasse di banale sciatalgia
e sopportavo fiducioso che essi passassero, ma nel dicembre 2008 rimasi in fondo
a un letto, senza potermi muovere. Gli amici del gruppo facevano la spola da
casa mia e questo mi riempiva il cuore. Ero il presentatore delle manifestazioni
culturali che programmavamo e cominciai a disertare gli impegni a causa del mio
stato di salute. Poi, sempre a dicembre, si scoprì che quei forti dolori alle
ossa erano delle metastasi e i medici mi sballottarono in ripetuti ricoveri per
identificare l’origine del tumore e iniziare una corretta chemioterapia. Dopo
varie biopsie i medici scoprirono che si trattava di un linfoma non Hodgkin
partito dal naso. Altro che polipetto! Cominciava così il calvario della chemioterapia,
dei ricoveri e dei farmaci con le conseguenti lacrime. Ma non mi sono mai
abbattuto, perché penso che la speranza sia quella che non dovremmo mai
abbandonare. Ho gli amici, ho Giuliana che non mi abbandona di un passo, è
diventata la mia ombra. Finalmente anche lei frequenta questo gruppo di amici
un po’ matti che decantano versi, che dipingono e a volte si punzecchiano.
Penso finalmente di aver raggiunto il mio sogno, adesso ha un nome:
FilicusArte. Raggruppa poeti, pittori, scultori...
Tutti gli amici, perché questo sono, mi amano e mi rispettano. Così adesso
abbiamo una sede nella chiesa che un tempo fu di padre Cutropia e che adesso è
di padre Marco, proveniente da Camaro come me. Questo giocattolo chiamato
FilicusArte un giorno farà parlare di sé.
Nel tempo libero mi dedicavo con maggiore cura a quella che da sempre è
stata la mia passione: la poesia, che trovo confortante nei miei momenti di
abbandono, unico svago che mi resta per comunicare agli altri ciò che sento,
continuando questo corso, spero interminabile, della mia vita. (Ho scritto più
di milleottocento liriche, cercando di immortalare i momenti felici e quelli
disastrosi che hanno seguito passo dopo passo il mio cammino). La passione per
la poesia a volte mi distrae, ma non può sanare le ferite che porto dentro e
che sono divenute col tempo vere e proprie piaghe per le quali non c’è medicina
adatta a guarire, perché soltanto l’amore e l’affetto sono il toccasana per chi
come me ha sempre mendicato questi sentimenti; cercandoli, alcune volte ho
creduto di trovarli, ma la solita nube oscura sempre il mio tratto. Oltre alla poesia
amavo dedicare il mio tempo libero alla presentazione di gare ciclistiche e di
varie manifestazioni culturali. Devo essere sincero, appassionavo il pubblico
con la mia bella voce! Proseguo comunque su questo cammino, e tenendo per mano
Giuliana e Davide continuo ancora il mio percorso colmando gli spazi con i
mille ricordi di me, di Giuliana, di Davide, che si affollano nella mia mente.
Ripenso al giorno della sua prima comunione, al pranzo dopo la cerimonia
con Nunzio, mio carissimo amico, insieme a tutta la sua famiglia. Quel ricordo rimane
per me un cammeo da conservare con cura. Tornando indietro nel tempo, che è il
passaporto per la girandola di vita, avevo sempre presenti nei ricordi, oltre
ai miei zii Mela e Nino – rispettivamente sorella e fratello della buon’anima
di mia madre – anche i miei fratelli: Totuccio, che è sposato e padre di due
figli, Maria e Raffaele, e abita a Genova; mia sorella invece – sposata anche
lei con quattro figli: Anna, Miriam, Ida, ed Angelo, alcuni di loro sono
sposati e l’hanno già resa nonna – abita a Barcellona Pozzo di Gotto. Questo è
il quadro completo che fa parte dei miei affetti familiari. Insieme alla mia
bella Giuliana e a Davide continuo a vivere vicino al mare e ai monti, in una cornice
che tanti ci invidiano; ormai sono un pensionato con la speranza che ciò che mi
rimane da vivere sia favorevole. Continuerò a vedere il sole, il gioco
dell’alba e della sera e ad essi non potrò mai associare il calore del corpo che
diviene cornice del passaggio umano, aggrappandomi agli steli di questi fiori
ancora non sbocciati... che fanno parte dell’albero genealogico nella visione
denudata di questo unico avere, mentre cambia nell’insieme l’evolversi della specie
che appartiene allo stesso fiume di sangue. Mi accorgo sempre più che questo
proseguo non cancella il passato e lascia una macchia. In quel tragitto
tortuoso e pieno d’insidie posso annoverare i nipoti, che sono il risultato di tutto
l’insieme, formando essi e solo essi la luce che splende nell’infinito,
augurando loro un radioso avvenire; così sono apparsi nel mondo: Chiara,
Gabriele, Mattia, Sara, Giorgia, Manuel, Samuele e Nicolò, che mi hanno dato la
carica per continuare questo mio poco spazio del rimanente vivere, cercando
sempre di aiutare Davide che ne ha tanto bisogno, perché di padre ce n’è uno
solo e di nonni ce ne possono essere quattro. Non infierisco, ma rimango
solerte a guardare quest’angolo di mondo che a volte mi appare tanto cupo che
non riesco a vedere nemmeno la mia ombra. Auguri, figli miei, sono vostro padre
e ogni dolore vostro è mio...
Tutt’oggi continuo la mia lotta per sconfiggere il male e aggrapparmi a
quella fede nei miracoli che mi è stata insegnata.
Come sarà il mio domani?... Questo lo dovrà scrivere qualcun altro.
Carmelo presenta un’edizione della tradizionale Corsa Ciclistica
che si svolgeva ogni anno il 14 agosto a San Pietro di Milazzo
A mio padre che non c’è
più
Ed oggi è il mio 18° compleanno e tu papà non ci sei più... Ne abbiamo
passati diciassette insieme ma sono troppo pochi, quanto avrei voluto che ne
trascorressimo insieme altri trenta almeno!... Tu che hai sofferto davvero
tanto nella tua vita... Da quando sei nato con la perdita di tua madre... Tu
che sei stato in collegio in orfanotrofio... Tu che hai superato davvero tante
battaglie... Però quel cazzo di tumore ti ha portato via... via da me, dalla
mamma e da tutte le persone care che ti volevano veramente bene ed erano tante
tante, tutti ti ammiravano e ti conoscevano... Perché eri una persona
fantastica, perfetta e ti facevi voler bene da tutti... Eri la persona più
intelligente che abbia mai conosciuto... Mi mancano tutte le giornate che
passavamo insieme... La tua splendida voce che io, come tutti, amavo ed
ammiravo... le tue splendide poesie... Mi mancano i tuoi insegnamenti e i tuoi
rimproveri... mi manca la tua presenza in casa, mi manca tutto di te... Ogni
volta che facevo il compleanno ti sedevi accanto a me nel letto e mi guardavi dormire,
mi accarezzavi i capelli, mi davi un bacio... io mi svegliavo dolcemente,
aprivo gli occhi e mi dicevi: «Auguri papareddu»... Ed io so che tu stamattina
eri lì accanto a me come ogni giorno... Scusami per tutte le volte che ti ho
alzato la voce... Dentro di me ci rimanevo male, davvero male, come se mi esplodesse
il cuore... ma non avevo quasi mai il coraggio di chiederti scusa... perché mi
vergognavo di quello che avevo fatto... Scusami se non ti sono stato molto
vicino come dovevo... Papà mi manchi... Avrei fatto qualsiasi cosa per tenerti almeno
un altro giorno con me... Darei qualsiasi cosa per riabbracciarti almeno
un’ultima volta. Resterai per sempre nel mio cuore. Ti voglio bene!
Il tuo Davide
POESIE di Carmelo Coppolino Billè
Fogli d’un libro
Tra le sporcizie d’una
via scorgo
fogli d’un libro alla
lettura del vento,
raccolgo e raccogliendo
leggo:
sotto l’autore sembra di
sentir lamento;
quanti pensieri
rinchiusi, quanta tristezza,
al sol veder quel libro
rifiutato
pensare che qualcuno lo
disprezza
o forse già lo ha letto
ed ha sudato.
Del Dante vi ritrovo un
suo sonetto
che mente umana non può
giudicare
e piango non con il viso
ma con il petto
perché vorrei al mondo
mesto gridare:
nelle notti ove Tu
riposi e dormi
c’è chi scrive quei
piccoli versetti
e la vista di quel libro
è l’uniforme
posso io raggiunger
vette?
Mentre m’affido alla
pagina volatoria
a quella stracciata
portata via dal vento,
e gridando ad alta voce
orsia, orsia,
ma volesse il mio
Signore
che quella pagina
strappata almeno fosse mia.
Il mio paese
Sul monte come bandiera
all’asta
non avendo tua presenza,
nell’amara amarezza
sepolta...
Mio paese, hai visto i
miei natali
offese trascinati dai
mali.
Cantando al sole che non
muore
non ti cambierei con una
grande città,
affetto fermo pieno di
dolore
ma pieno di passione e
di beltà.
La chiesetta del
battesimo che fu,
radice di me stesso
emozioni surreali
mentre il pensiero mio
tesso.
Piccola strada e tanti
ricordi
visione della gioia
degli anni
il latte di mia madre mi
nutriva.
Paese piantagione della razza
mondo non fa cambiar
affetto
anche se il militar
t’offre la tazza
e vai a dormir
sott’altro tetto.
Valicai il mare e si
staccò il cuore,
lettere a volare e
contavo le ore.
Portai una pietra or la
ripresi
come fanno quelli per la
pesca
e la riportai nel mio
paese...
Ai miei compagni di
collegio
Fratelli, miei compagni
di collegio
sembra veloce il tempo,
ma scorre adagio
sono accanto al destino
e al vento
ed io sempre di voi mi
rammento.
Ricordo il coro d’ogni
sera,
quando recitavamo la
preghiera
al vento si chinano i
verdi rami
e tra i piangenti vitali
siamo i primi.
Quanto chiasso nella
camerata la mattina!
Ci facevamo i letti con
tanta disciplina.
Queste pareti che hanno
visto il pianto
e i nostri volti che
soffrivano tanto.
Era poi l’ora della posta
chi non la riceveva
piangeva e basta,
non si conosce né volto
di padre
né cuore di madre...
...nessuno ci cercava
allora
seguendo il tramonto e
pur l’aurora
sfiorava il mio nome in
quell’elenco
ed io per ricordo ancor
lo tengo.
Dalla tristezza si passava
al canto
proseguendo con la
preghiera al Santo.
C’era il mio nome
scritto appresso,
piansi ed ora lo
confesso...
Carmelo, il terzo da
sinistra in piedi insieme con i suoi
compagni di classe presso la Città del
ragazzo”, Messina
Ricordo d’uno scolaro
Bimbo correvo eretto e
tranquillo
dove il passo mi portava
senza senso,
ed ero pronto ad ogni
squillo
allontanando dalla mente
il penso.
Furono gli anni
associati al pianto
quelli che si trascinano
con tanto sdegno,
ma fanno parte
intrinseca del canto
formando l’uomo nel suo
impegno.
Ricordo quando marinavo
la scuola
e con la bici correvo
tanto forte
al pensarci niente mi
consola
trovando chiuse tutte le
porte.
Se tornassi fanciullo in
età scolare,
studierei con tanto
ingegno.
Sono tante le muraglie da
scalare
che servono a tracciar
tale disegno.
Padri e figli
Una sanguisuga la vita;
attorcigliata dal tempo
complicità assurda,
mordente,
senza spiragli di
luce...
galoppa, incombe, si
diffonde,
macinato, cancellato,
estinto.
Pesante diviene il passo
dal grato al degrado.
Vedo fuggire lontano,
non corro più come
allora,
perdendo il passo
barcollo;
col rospo che soffoca
gola intrisa.
Volgo lo sguardo
appresso,
dove il ricordo ha sede,
sgretolato dal silenzio.
Lasciando il confuso in
ombra...
metafore astrattismi non
colti,
mendico affetto non
fuso,
l’ingorgo intravede
passato
lo sguardo lacera
innanzi.
Sono stati semi
piantati, voluti...
accompagnati d’amore e
perdono,
dal gelo e dal vento
bruciati
in arida terra senza
germoglio.
Non sono: né alberi né fusti:
solo fragili steli...
Poesia vincitrice del
Concorso “Nunzio Giordano Bruno”
Nel cammino
Andai per una strada
sconnessa
in un percorso sempre
più buio,
arrestato a volte dalla
mia paura
nella vita passata,
presente e futura.
Vidi da lontano tanta
gente
ch’io sconsolato mi
fermai stante,
con gli occhi cercai
tutto il presente
continuai a camminar
passo costante.
Un attimo fu il mio
smarrimento,
che persi di sfuggita
tutto l’istante
mi parvero tante linee
nel segmento,
che cominciai a
percorrerle tutte quante.
Quando m’accorsi che
tutti erano strani,
quietai il mio passo
tutto rallentai,
bruciava il mio corpo mi
guardai le mani,
convinto per altre
strade andai.
Tutto nell’intorno
sembrava mio
anche il buio pesto
della notte,
ma ero solo soltanto col
mio io,
ed eravamo vicini a
mezzanotte.
Lanciai uno sguardo su
nel cielo
vidi le stelle ancora
più brillare,
ma negl’occhi m’è
rimasto un velo,
senza paura il mio
ricominciare.
A bedda vita
C’esti nu signuri ’nta
li paraggi
chi si licchittìa tutti
li jonna
lu’ntennunu parenti di
li festi
chi tali e quali a jddu
era so nonna.
U so tempu chi strascina
a reti
e lu so postu di vera
risidenza,
sunnu: lu bari, lu
giuocu di li catti
ma ci voli cuscenza...
So figghi vannu tutti
strazzati
cu li scappi chi si vidi
u pedi
e ‘nta da facci chi
parunu malati,
a buci fotti diciunu a
vita:
ma quannu ti cheti?
Non semu così tutti i
siciliani
chistu e fora razza
sugnu sicuru,
nujautri rispittamu puru
i cani
e pi la famigghia ni
sbattemu
a testa o muru...
La bella vita
C’è un signore nei
dintorni
che si agghinda tutti i
giorni
lo intendono parente
delle feste
e tale e quale a lui era
sua nonna.
Il suo tempo che
trascina dietro
e il suo posto di vera
residenza
sono: il bar, il gioco
delle carte
ma ci vuole coscienza...
I suoi figli vanno tutti
strappati
con le scarpe che si
vede il piede
e nel volto sembrano
malati,
a voce alta reclamano la
vita:
ma quando ti calmi?
Non siamo così tutti i
siciliani
questo è fuori razza,
sono sicuro,
noi rispettiamo pure i
cani
e per la famiglia ci
sbattiamo
la testa al muro...
U travagghiu
Chiddu chi suta tuttu lu
jonnu
pi guadagnari lu pezzu
di lu pani
picchì a so famigghia
javi bisognu
e quannu arriva ci
vaddunu li mani.
I picciriddi vannu
criscennu
a fimminedda è quasi
signurina
u patri capisci chiddu
chi voli diri
e lu primu chi si suggi
la matina.
Quantu pinzeri passunu
pa menti
ora ca terra è tutta
bannunata
e tutti vannu a fari li
studenti
e a nostra vita è sempri
chiù malata.
Pu beni da terra chi
sempri ci manca
u profumu di prima era
sinceru
ora tutti currunu pa
fabbrica e pa banca
lassannu ‘ntallaria
chiddu ch’è misteru.
Ma picchì, o miu
Signuri:
lu travagghiu è così
duru?
Fossi pi cunnannari a
l’omu?
Jò da tant’anni
travagghiu
e ommai pi’mmia lu
travagghiu:
è giocu...
Il lavoro
Quello che suda tutto il
giorno
per guadagnare il pezzo
del pane
perché la sua famiglia
ha bisogno
e quando arriva gli
guardano le mani.
I piccoli vanno
crescendo
la piccola ragazza è
quasi signorina
il padre intende quello
che vuol significare
è il primo che si alza
la mattina.
Quanti pensieri
attraversano la mente
ora che la terra è tutta
abbandonata
e tutti vanno a fare gli
studenti
e la nostra vita è
sempre più malata.
Per il bene della terra
che sempre ci manca
il profumo di una volta
era sincero
ora tutti corrono alla
fabbrica e alla banca
lasciando nell’aria
quello che è mistero.
Ma perché, o mio Signore
il lavoro è così duro?
Forse per condannare
l’uomo?
Io da molti anni lavoro
e ormai per me il lavoro
è gioco...
La preghiera
L’amore:
fa parte del pensare
annusando il capire,
pieno di tentazioni
vengono abbandonate,
difficilmente puoi
mentire.
Sono bambino per capire
se io prego con amore,
solo Tu lo puoi sapere,
o mio Signore...!
La preghiera che io
invoco:
è donata ai poverelli,
prego per chi mi ha
lasciato,
dice la mamma che:
nel camposanto è andata.
È vero, o mio Signore?
Per finire la preghiera,
pace a Te, a tutti gli
uomini
del mondo... e buona
sera...
Un ricordo lontano
È là! La mia casetta,
identica al passato:
cambia il mio strillo
e il mio infantil vocio;
Infantile in fasce,
allora ella mi pasce,
non s’ode più la voce
di quella donna,
faceva tacermi cantando
la ninna nanna,
con quella voce sincera
d’una Madonna...
Quell’armonia di luce,
e di calore, quelle
sante,
benedette sue parole,
il primo profumo,
il primo pianto,
perché al pensar
ne soffro tanto?
Eri troppo giovane
per quella sorte
e un fiore non sbocciato
per la morte,
dimmi tu quel ch’hai
fatto
oh Mamma!
Tu ch’eri per me
il calore e la fiamma.
M’avventa la solitudine
al tuo pensiero,
e come un carcerato
sono prigioniero,
fosti in vita attimi,
mamma mia,
m’affidasti al Signore
dicendo e così sia.
Non conobbi
il tuo volto com’era,
per tutta la vita
ti porto la cera,
sei là in quel
fossato di terra,
ove la vista
il pianto afferra.
Quell’affetto povero
ma d’una Mamma
or non c’è più è
in quella terra Santa...
Il mio pensiero
non mi dà pace,
quanto dolore
e quanta brace,
tu sola eri l’unico
affetto mio, mamma,
perché
ti ha preso il Dio?...
Era il cinque marzo
ed ella moriva,
in me rimane sempre
l’ombra viva,
una stanza che ha
la luce spenta,
c’è la lampada e
mia mamma che lamenta.
Tu vorresti dirmi tante
cose,
quelle che ti rimasero
nel cuor che Dio ti
pose,
non puoi più dirmeli
e ne soffri tanto. È
vero?
Me le dirai quando sarò
anch’io nel cimitero...
Lettera aperta
Al Convegno di studi sulla tutela dell’ambiente a Milazzo
Mi chiamo Carmelo Coppolino Billè, da quarantuno anni abito a Milazzo e
sento dentro me di essere un milazzese a tutti gli effetti. Con questa città ho
condiviso gioie e dolori, ma da tre anni a questa parte sono stati più dolori e
meno gioie.
La città di Milazzo ha bisogno di questi meeting per conoscere le tante
realtà nascoste. Questa lettera Vi giunga attraverso padre Marco della parrocchia
“Sacro Cuore”, che è stato l’ideatore di questo simposio sull’ambiente della
città del capo, e la stessa viene consegnata all’amico Pippo Ruggeri, per il
quale da sempre
nutro tanta stima, rappresentante della Legambiente di Milazzo e punto di
riferimento per i milazzesi. Vengo al dunque: ricoverato per un banale dolore
alle gambe, dopo tanti accertamenti mi trovo nel reparto oncologico del
Policlinico di Messina, affollato da tanta gente ma soprattutto proveniente dalle
nostre parti. Tanti nomi e cognomi della nostra piana che oggi non ci sono più
“purtroppo” e che non vorrei divenisse una catena di S. Antonio. Ricordo fra l’altro
in una stanza del reparto oncologico che su quattro pazienti, tre eravamo di
Milazzo e questo mi fece subito pensare, e non so se fa pensare pure voi. A suo
tempo, e precisamente un anno fa, mi veniva diagnosticato un linfoma che aveva
attaccato le mie ossa e che mi costrinse a stare per tre mesi sulla sedia a
rotelle. È stata un’esperienza che mi ha fatto piangere, ma senza perdermi d’animo
e con la tenacia e la caparbietà che mi contraddistinguono, dopo dieci
chemioterapie sono finalmente riuscito a mettermi in piedi. Ora sto continuando
quella di mantenimento al fine di raggiungere la tanto desiderata guarigione.
Dopo questa esperienza sono diventato un uomo di fede e credente nel miracolo.
Ora mi rivolgo ai relatori di questo raduno. Per concomitanza di data e di
orario non posso essere presente, in quanto impegnato come coordinatore per la
presentazione di un libro al Palazzo D’Amico, e visto che queste cose si fanno
in casa comunale le concomitanze non dovrebbero accadere.
PERTANTO A VOI CHIEDO:
– Dott. Giuseppe Falliti referente WWF Sicilia “Aree industriali
a rischio”;
– Ing. Vincenzo Colavecchio membro Dierez. Reg. Legambiente
Sicilia;
– padre Giuseppe Trifirò Presid. Associazione Tutela
della salute del Cittadino;
– Dott. Ettore Lombardo Dirigente Tecnico Az. Forestale
Demaniali di Messina;
CHE CI SIA UN CONTROLLO SULL’INQUINAMENTO A MILAZZO E DINTORNI AL FINE DI
PORTARLO NEI PARAMETRI CONSENTITI DALLA LEGGE. È POSSIBILE CHE DA MILANO IL PROF.
VERONESI SAPPIA DELLA ZONA ROSSA AD ALTO RISCHIO TUMORALE E NOI CHE ABITIAMO
NON LO SAPPIAMO? O CHE IL 30% DEI RICOVERATI AL SAN RAFFAELE DI MILANO SONO
DELLA VALLE DEL MELA? MI CHIEDO: DOBBIAMO INTERPELLARE IL DOTT. BERTOLASO CHE
SI OCCUPA DI FRANE, ALLUVIONI E CALAMITÀ MOLTO GRAVI ED IMPORTANTI?...
MA CREDETE CHE L’ALTO TASSO DI INQUINAMENTO SIA UN FATTORE SECONDARIO? IO
CREDO DI NO, MILAZZO È IN AGONIA, STA
MORENDO LENTAMENTE... UNITE LE VOSTRE FORZE PER DARE UNA RISPOSTA AI MILAZZESI.
Grazie di avermi letto sin qui...
Camelo Coppolino Billè
Hanno parlato di lui
Gazzetta del Sud
Giornale di Sicilia
La Città
La Voce di Milazzo
Primo Piano
Siciliapress
Terminal
alidicarta.it
alberghimilazzo.alberghiitalia.4k.com
erimata.it
girodivite.it
it.blogbabel.com
liquida.it
malgradotuttoblog.blogspot.com
poesianuova.it
radiopatti.wordpress.com
24live.it
lacalibrataforever.blogspot.com
scrivere.it
barcellonapg.it
oggimilazzo.it
tempostretto.it
blogdelmela.blogspot.it
arapoesia.blogspot.com
parcodeinebrodi.it
messinasportiva.it
radiostereosantagata.blogspot.com
In ricordo di Carmelo
A me ha insegnato l’abbandono a Chi è più in alto di me, l’abbandono alla preghiera,
alla fiducia nel prossimo, alla fede che oltrepassa, a volte, il dolore.
Grazie, Carmelo, per aver saputo dare esempi concreti del vivere, offrendo
le tue mani – tu già sofferente – a lenire il dolore.
Tutti coloro che ti hanno conosciuto ti portano nel loro cuore e sanno che prima
o poi si ricongiungeranno a te.
Roberta Tomaselli
Anni fa scrissi per te una poesia, non potevo ancora sapere che dopo
qualche anno le prove cui saresti stato sottoposto sarebbero state immani.
Adesso, a rileggerla, vedo come già allora l’affetto per te mi trascinava verso
il gruppo che si andava formando e di cui tu eri il promotore. Mi hai fatto
conoscere altresì un mondo di uomini e di sentimenti espressi attraverso
l’arte. Nelle tue poesie hai cantato la vita e io ne ricordo la voce.
Anna La Rosa
Ci sono momenti in cui le parole sembrano superflue, scontate e senza
senso, perché spesso non sono dettate dal cuore, vero motore di sentimento.
Carmelo, invece, le usava per catturare l’animo di chi leggeva e legge i suoi
versi. Tutta la sua poesia ripercorre la storia di un viaggio, è dunque un
riflesso poetico vissuto parallelamente ad una vita di straordinaria intensità.
È musica pura e i suoi versi a volte tesi come corde di violino vibrano e si
soffermano su ogni cosa, descrivendo minuziosamente ogni aspetto di vita e
donando, a chi sa coglierli, un barlume di speranza. Ecco allora che, a parer
mio, il suo diviene un messaggio o semplicemente potremmo dire che la sua è
stata vera “follia poetica”.
Mariella Corso
Finito di stampare nel mese di febbraio 2013 per conto
dell’Associazione Smasher di Barcellona Pozzo di Gotto